L’attesa è finita: Matteo Renzi sale al Quirinale alle ore 18.00 odierne per presentare la lista dei ministri al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, con l’intenzione di ottenere già lunedì lo (scontato) voto di fiducia necessario a subentrare ad un governo Letta che non lascia di sé tracce o ricordi particolari se non nella tenacia con cui sino alla fine il premier Enrico Letta ha tentato di proporre riforme, privatizzazioni e misure per il rilancio del paese che si sono rivelate, come sempre da almeno 20 anni, un libro dei sogni. La domanda che si fanno analisti e investitori (e, più distrattamente, qualche elettore italiano) è: riuscirà il sindaco di Firenze a centrare l’obiettivo fallito, tra gli altri, dai suoi tre predecessori Silvio Berlusconi, Mario Monti ed appunto Enrico Letta? Basteranno le riforme, ancora da dettagliare in sede parlamentare, per ridare slancio a un’economia ferma da un ventannio che ormai vive schiacciata dal peso di 2.100 miliardi di euro di debito pubblico pregresso?
Gli analisti di Credit Suisse sono prudenti e in un report distribuito stamane scrivono: “Il programma del nuovo governo sembra ambizioso. La legge elettorale e il primo turno delle votazioni sulla riforma costituzionale dovrebbe avvenire entro la fine di questo mese. Nel mese di marzo, il governo dovrebbe affrontare la riforma del mercato del lavoro, nel mese di aprile la riforma della pubblica amministrazione e a maggio la riforma del sistema fiscale. Ciò consentirebbe Renzi per dare il via al semestre europeo a presidenza italiana su una posizione forte e spingere per qualche innovazione anche su questo fronte”. La lista dei provvedimenti annunciata non rappresenta una novità, notano gli esperti, visto che “precedenti governi hanno lavorato su vari di questi fronti”. Tuttavia “l’opposizione dentro e fuori dal Parlamento e dentro e fuori la pubblica amministrazione ha ridotto la maggior parte dei loro sforzi. E Renzi è probabile che debba affrontare sfide simili”.
Entrando nel merito dei singoli temi agli esperti svizzeri pare che l’attuale proposta di legge elettorale “dovrebbe essere in grado di garantire maggiore stabilità al governo e, dopo l’accordo con Forza Italia, per la sua approvazione non dovrebbero esservi troppi ostacoli”. La riforma della Costituzione, e del Senato in particolare, “dovrebbe procedere mano nella mano con la legge elettorale, per garantire la governabilità”. Renzi, notano gli esperti, “punta a trasformare l’attuale Parlamento bicamerale, in cui entrambe le camere hanno gli stessi doveri e poteri, in un sistema centrato sulla camera bassa” con un Senato trasformato in “una camera regionale i cui membri sarebbero presidenti di regioni, sindaci delle principali città, e senatori nominati dal primo ministro”. In tutto 150 persone (contro i 315 senatori attuali), non stipendiate, che però come nota Marco Cucchini su Lavoce.info sarebbero titolari “del potere legislativo in una complessa gamma di materie”, “dalla revisione costituzionale alla Legge di stabilità, dalla legge comunitaria alle materie concorrenti stato-regione, fino a giungere al concorso nell’elezione degli organi di garanzia, a partire dal presidente della Repubblica”.
Il punto debole di tale modello è che il nuovo Senato, “ pur privato della funzione fiduciaria, avrebbe comunque un ruolo centrale in tutte le altre aree”. Si tratterebbe dunque “di una seconda camera molto forte, ben lontana dal ventilato passaggio a un sistema monocamerale”, con un rischio evidente relativo alla sua futura composizione: “ipotizzare che venga composta quasi interamente da sindaci e presidenti di regione è una ingenuità, buona forse per vincere la battaglia mediatica, ma incapace di reggere a una riflessione più seria”. In sostanza, conclude Cucchini, potremmo permetterci mai “un Senato “legiferante”, i cui membri ricoprono un altro incarico che li impegna pienamente? Quando troveranno il tempo di fare i senatori? Nei weekend? O, viceversa, se il Senato lavorerà sul serio, con commissioni impegnate ad approfondire le molte tematiche che ne riempiranno l’agenda politica, chi amministrerà le città e le regioni”? Ma andiamo avanti.
Il “job act” che propone Renzi punterebbe a minori imposte sul lavoro (assolutamente necessarie come non manca di ricordarci l’Ocse), un mercato del lavoro semplificato con un unico contratto di ingresso e indennità di disoccupazione universali. In questo caso sono gli stessi analisti di Credit Suisse a far notare come “questo potrebbe rivelarsi un terreno più difficile su cui andare avanti. Al di là del sostegno, dentro e fuori il parlamento, le difficoltà di attuazione e di bilancio sarebbero i due ostacoli principali da aggirare”. Quanto al primo punto, già il governo Monti, ricordano gli esperti, provò già a metter mano al tema con la Riforma Fornero, che “tra le altre cose ha cercato di affrontare la segmentazione del mercato del lavoro italiano e introdurre norme relative ai licenziamenti e attuare una riforma del welfare”. Vista la delicatezza del punto l’opposizione che si troverebbe ad affrontare Renzi non sarebbero dissimili da quelle già vissute da Monti e questo costituirebbe “il primo vero test per la sua leadership”.
Quanto al secondo punto, “un’altra difficoltà è probabile che sia l’implementazione della riforma – una critica già mossa dalla Commissione europea alle riforme dei governi precedenti”. In terzo luogo, concludono gli uomini del Credit Suisse, “il taglio del cuneo fiscale rischia di essere difficile e limitato, date le precarie condizioni di finanza pubblica italiana”. Anche perché, aggiungo io, cercare di finanziare una sia pure modesta detassazione dei redditi da lavoro, misura destinata comunque a rimanere ampiamente insufficiente rispetto alle reali necessità del paese (si calcola che solo per riportare il costo del lavoro italiano ai livelli di competitività di quello tedesco occorrerebbe abbattere di 50 miliardi di euro l’anno il cuneo fiscale: ditemi voi se la cosa vi pare possibile in un paese che per mesi è andato avanti dividendosi sull’opportunità o meno di eliminare una tranche di pagamento dell’Imu del valore di neppure 3 miliardi), si starebbe già pensando di introdurre nuove forme di tassazione delle “rendite finanziarie” o delle “transazioni finanziarie”.
La differenza non è da poco ma i “nostri eroi” non sembrano aver chiaro finora né la differenza né i meccanismi che una simile tassazione attiverebbe, come già accaduto con la sciagurata “Tobin Tax” all’italiana sugli scambi di borsa o peggio con la “patrimonialina” sui depositi e conti correnti. Prima di commentare meglio dunque aspettare a vedere le proposte dettagliate, ma se per detassare il lavoro si tasserà il risparmio, il rischio che sia una “partita di giro” mi pare quanto meno elevato. E siccome, con buona pace di chi continua a fare polemiche da bar sugli “aiuti alle banche”, non è pensabile prelevare solo ai “ricchi” per distribuire ai “poveri” (non fosse altro per il fatto che si rischierebbe di colpire più che proporzionalmente i contribuenti benestanti onesti senza minimamente raggiungere i veri ricchi “evasori”, per non parlare di chi la propria ricchezza deve ad attività criminose), l’ambizioso programma di Matteo Renzi non può che suscitare al tempo stesso speranze e timori: speranze che possa finalmente rappresentare una “rottura di paradigma” rispetto all’immobilismo passato, timori che alla fine si dimostri l’ennesima prova del gattopardismo italiano.