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Renzi non ha ridotto il debito pubblico, Ue chiede correzione di rotta

Matteo Renzi aveva promesso di iniziare a ridurre il peso del deficit pubblico italiano, ma sotto il suo governo è amentato in media del 7,2% per ogni italiano. Intanto Bruxelles chiede a Roma di correggere la rotta con una manovra da 3,4 miliardi di euro…
A cura di Luca Spoldi
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Matteo Renzi  lo aveva sottolineato nel suo discorso d’insediamento davanti al Parlamento, nel febbraio 2014: occorreva iniziare ad abbattere la montagna del debito pubblico italiano. Ma la missione è miseramente e volontariamente fallita, visto che sotto il suo governo il debito stesso è salito (a fine novembre) alla cifra record di 2.617 euro per residente italiano, con un incremento che ha superato persino quello registrato dal governo guidato da Silvio Berlusconi tra il 2008 e il 2011: +7,6% contro +7%.

Sull’andamento del debito pubblico ha pesato la decisione di ricorrere a bonus e mance elettorali varie nel tentativo di mantenere un elevato consenso popolare e di incentivare la crescita tramite un auspicato incremento dei consumi. Il solo bonus Irpef, quello dei famosi 80 euro lordi mensili, ha pesato lo scorso anno per oltre 6,1 miliardi di euro, il bonus docenti (500 euro di spese per formazione) per oltre 380 milioni, l’analogo bonus studenti altri 270 milioni. In tutto solo queste tre misure hanno pesato per oltre 6,75 miliardi di euro sul bilancio pubblico, finanziati naturalmente a debito.

Del resto l’abitudine di comprare consenso cercando di finanziare la crescita a debito è una costante dei governi italiani, persino di quelli che sulla carta avrebbero dovuto cercare di ridurre le spese come l’esecutivo guidato da Mario Monti (che invece fece salire il debito medio per italiano del 5,5%) e persino la breve esperienza di governo di Enrico Letta (+0,9%). Risultato: a fine novembre scorso il debito pubblico tricolore era salito rispetto al mese precedente di altri 5,6 miliardi arrivando all’astronomica cifra di 2.229,4 miliardi, a causa in particolare del fabbisogno mensile della pubblica amministrazione (7,1 miliardi).

Se questo per ora non sembra preoccupare gli investitori mondiali, grazie all’azione messa in campo dalla Bce guidata da Mario Draghi (che sta continuando a comprimere rendimenti e rischi dei titoli di stato dell’Eurozona), tanto che a fine novembre il controvalore totale dei titoli di stato italiani detenuti da investitori esteri è salito a 737,8 miliardi (2 miliardi in più di fine ottobre) e la vita media residua del debito è salita a 7,3 anni (era pari a 7 anni a inizio 2016), ben diverso è l’atteggiamento della Commissione Ue.

In una lettera inviato al governo italiano Bruxelles torna infatti a chiedere una correzione del deficit strutturale di circa 3,4miliardi (lo 0,2% del Pil), prevedendo che in caso contrario il bilancio 2017 si discosti dal cammino di riduzione del rapporto debito/Pil concordato. Roma dovrà rispondere entro il primo febbraio e quindi già nei prossimi giorni Pier Carlo Padoan e i tecnici del ministero dell’Economia e finanza dovranno elaborare le proposte da presentare al premier Paolo Gentiloni.

Il tentativo di rimbalzare la palla da parte del governo italiano pone l’accento sulla dinamica negativa dei prezzi (nel 2016 in Italia per la prima volta dal 1959 si è registrata una discesa media dello 0,1% dei prezzi al consumo), che come più volte ricordato incide negativamente sul rapporto deficit/Pil che è calcolato sul Pil nominale (ossia tenendo conto dell’inflazione o come in questo caso della deflazione), tuttora inferiore ad un terzo al costo medio del debito (che oscilla attorno al 3%), e sulle condizioni avverse dei mercati finanziari, che non avrebbero reso possibile cedere beni dello stato.

L’Italia, che dovrebbe aver chiuso il 2016 con un indebitamento netto al 2,4% del Pil, nulla dice del fatto che non si è voluto procedere ad una riduzione ed efficientamento della spesa pubblica (perché si sarebbe dovuto andare ad affrontare voci di spesa relative principalmente ad assistenza sanitaria e previdenza), né si è saputo ridurre la burocrazia e migliorare l’efficienza della pubblica amministrazione.

E visto che il peso del fisco è già a livelli più che depressivi  (la pressione fiscale in Italia è pari al 43,4% del Pil contro una media europea del 39,9%) e tale da indurre molti gruppi italiani (da Fiat Chrysler Automobiles a Luxottica) a trasferire all’estero la sede legale, si è preferito lasciar correre il debito sperando che esso alimentasse una crescita che invece è risultata ancora una volta anemica (il Pil dovrebbe essere salito dello 0,7%, contro lo 0,5% segnato nel 2015).

Come andrà a finire non è dato sapere, ma è probabile che Roma si adegui alle richieste di Bruxelles. C’è da sperare che per farlo si preferisca per una volta rinunciare a misure propagandistiche per conservare misure strutturali, come il taglio dell’Ires dal 27,5% al 24% entrato in vigore dal primo gennaio di quest’anno, che potrebbero rendere meno impari alle aziende italiane competere coi propri concorrenti esteri continuando a operare in Italia.

In fondo basterebbe dimezzare la platea dei percettori del bonus Irpef per quadrare i conti, se poi lo si abolisse si potrebbe addirittura disporre di un paio di miliardi spendibili per misure a sostegno dell’imprenditoria (magari giovanile). Per una volta Roma saprà badare alla sostanza più che al calcolo politico a breve termine? Col rischio di elezioni anticipate a fine primavera, la risposta non appare scontata.

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Luca Spoldi nasce ad Alessandria nel 1967. Dopo la laurea in Bocconi è stato analista finanziario (è socio Aiaf dal 1998) e gestore di fondi comuni e gestioni patrimoniali a Milano e Napoli. Nel 2002 ha vinto il Premio Marrama per i risultati ottenuti dalla sua società, 6 In Rete Consulting. Autore di articoli e pubblicazioni economiche, è stato docente di Economia e Organizzazione al Politecnico di Napoli dal 2002 al 2009. Appassionato del web2.0 ha fondato e dirige il sito www.mondivirtuali.it.
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