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Renzi dice di aver cancellato la precarietà, ma non è vero

Coi decreti attuativi del Jobs Act il governo cancella alcuni contratti precari. Poca cosa in confronto a quelli che rimangono, perfino peggiori, che vengono estesi.
A cura di Michele Azzu
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Lo avete letto sui giornali, su internet, o forse lo avete sentito in televisione: “Abbiamo cancellato la precarietà”, è il messaggio che emerge dai decreti attuativi del Jobs Act – la riforma del lavoro del governo Renzi – approvati al consiglio dei ministri del 20 febbraio. Gli annunci non si sono certo sprecati: “200mila co.co.pro passeranno a tempo indeterminato”, ha detto Matteo Renzi. E ha aggiunto: “Una generazione vede finalmente riconosciuto il proprio diritto ad avere tutele maggiori”.

Ma cosa cambia nel lavoro perché si possa parlare, addirittura, di fine della precarietà? In breve: vengono cancellati i contratti di collaborazione (co.co.co), quelli a progetto (co.co.pro), il “Job Sharing” e l’associazione in partecipazione. Quattro forme precarie: con le prime due si è “collaboratori” per progetti specifici senza essere dipendenti (anche se spesso non c’è differenza, e questo costituisce un abuso). Col Job Sharing due persone possono dividersi un unico lavoro, mentre l’associazione in partecipazione è la maniera in cui lavorano molti venditori porta a porta, che guadagnano in base alle commissioni sui prodotti venduti.

Cancellare queste forme di lavoro sembra proprio una cosa positiva. Ma basta per dire che è finita la precarietà? In realtà il nuovo contratto a tutele crescenti, rendendo un lavoratore licenziabile in qualsiasi momento – perfino nei licenziamenti collettivi – crea una figura di assunzione in cui chiunque diventa ricattabile (per sempre) sul posto di lavoro. E poi c’è il demansionamento, che permette all’azienda di spostare un lavoratore a mansioni inferiori dalle proprie, e arriva anche la possibilità di redigere accordi individuali col lavoratore, di modo che chiunque può essere forzato ad accettare uno stipendio inferiore pur di mantenere il posto di lavoro.

A fronte di questi provvedimenti cancellare co.co.co e co.co.pro, Job Sharing e associazione in partecipazione è poca cosa, pochissima. Sembra quasi uno specchietto per le allodole. Perché queste forme di lavoro occupano 500mila persone coi contratti a progetto, e solo 40mila tra Job Sharing e associazione in partecipazione. Numeri ben lontani dai 5 milioni di precari che la Cgil stima lavorino in Italia. Tolti questi, rimangono tutti gli altri contratti, quelli peggiori. Altro che fine della precarietà. Ecco le varie forme di lavoro precario che rimangono, e quelle che vengono estese dal governo Renzi.

VOUCHER – “Lo vendono come una grande opportunità ma originariamente si chiamava lavoro-nonlavoro”, spiega Idilio Galeotti, che per tanti anni si è occupato di precari al Nidil Cgil, come segretario provinciale a Ravenna. Il voucher è, infatti, la forma di lavoro più precaria in circolazione, che nasce nell’agricoltura per permettere ai contadini di far lavorare i propri parenti che lavorano nei campi. Il voucher rimane slegato dai contratti nazionali firmati dai sindacati. Significa che se per un determinato settore esiste una paga oraria minima – stabilita proprio nel contratto nazionale – chi lavora con Voucher potrà essere pagato anche meno. Perché la cifra è fissa: 10 euro lordi all’ora, ovvero 7.50 euro netti. Sul voucher sta puntando molto il governo Renzi: col decreto lavoro del 15 maggio 2014 il suo utilizzo è stato esteso, con gli ultimi decreti del Jobs Act, invece, si è alzato il tetto di retribuzione. Se fino a ieri col voucher si potevano guadagnare non più di 5.000 euro l’anno, ora il limite è stato portato a 7.000. Significa che a circa 600 euro al mese, si potrà lavorare un anno intero tramite voucher.

CONTRATTO A CHIAMATA – Anche questo contratto precario rimane. Esistono diverse tipologie. “C’è quella senza diritto di chiamata”, spiega Galeotti, “E la peggiore di tutte, stai a casa e aspetti anche mesi una telefonata”. Come funziona? Il lavoratore firma un contratto per cui non è previsto un ammontare di ore di lavoro. Che significa potersi ritrovare, poi, a fare zero ore, senza percepire un soldo, ma risultando occupato. “Ho avuto un ragazzo”, racconta Galeotti, “Che in tre mesi ha lavorato 24 ore a chiamata, guadagnando 200 euro”. C’e poi la tipologia che prevede un ammontare di ore al giorno o alla settimana, oppure quella in cui le parti – lavoratore e azienda – decidono un monte ore mensile.

SOMMINISTRAZIONE – Si fa sempre più uso dei lavoratori tramite le agenzie interinali, come di recente accaduto anche alla Fiat di Melfi. Il lavoro somministrato (o interinale) è quello per cui si viene assunti, solitamente con un contratto determinato di un anno o 6 mesi, dall’agenzia, che a sua volta “affitta” il lavoratore all’azienda. “Come Nidil siamo intervenuti sui contratti interinali”, spiega Galeotti, “Per fissarli al contratto nazionale di settore: se l’agenzia ti manda in un’azienda metalmeccanica tu devi poter lavorare secondo il contratto nazionale dei metalmeccanici”. Tuttavia il lavoro somministrato rimane sempre una forma precaria di lavoro. Perché i contratti determinati interinali non hanno i limiti dei determinati normali. “Alla fine dell’anno, anche se lavori nell’agenzia da 15 anni, possono lasciarti a casa se sei sgradito”, spiega ancora il sindacalista dei precari. “Siamo riusciti a mettere l’obbligo dell’assunzione da parte dell’agenzia per una persona che lavora per loro da 36 o 42 mesi”. In quel caso si ha diritto a un anno di formazione pagata ad 800 euro al mese. “Ma ti fanno i raggi X”, insiste Galeotti, “È difficile, ad esempio, che tu possa scioperare”.

ASSOCIAZIONE IN PARTECIPAZIONE. Secondo Idilio Galeotti, questa forma di lavoro appena abolita dal governo Renzi, non sparirà del tutto. “No, l’associazione in partecipazione c’è di due tipi: quello collegato al progetto, che hanno tolto, e quella normale, che rimane in vigore”. Una forma di lavoro tipica dei venditori porta a porta, che guadagnano in base alle commissioni dei prodotti venduti, o dei contratti chiusi, e a cui spesso si pongono degli obiettivi difficilmente raggiungibili. “E il lavoratore in questo caso non partecipa solo dei guadagni, ma anche delle perdite. A volte mi sono trovato con persone che hanno dovuto pagare, anziché essere pagati, per il lavoro fatto”, racconta Galeotti.

PARTITA IVA – È stato bloccato, per ora, l’aumento dei contributi Inps dal 27% al 30%, per cui erano già uscite le circolari ministeriali, ed è stato prolungato di un altro anno l’utilizzo del regime fiscale dei minimi agevolato per i giovani (quello con l’Irpef al 5%), che era stato recentemente cancellato dal governo scatenando l’ira della categoria. Malcontento che aveva portato più volte il premier ad ammettere di avere sbagliato sulla categoria. La soluzione apportata però è solo un tampone: dal gennaio 2016 – cioè proprio da quando dovrebbero entrare in vigore i decreti del Jobs Act cancellando i co.co.pro – l’Inps aumenterà, e i minimi per i giovani scompariranno nuovamente. Troppo poco per parlare di “soluzione” per le partite Iva.

PART-TIME – “In caso di gravi patologie i lavoratori del settore pubblico e privato hanno diritto di trasformare il rapporto di lavoro indeterminato in tempo parziale", ha affermato il ministro del lavoro Giuliano Poletti. A giudicare dalla ratio di questa riforma del lavoro, e dei suoi recenti decreti, quando si dice che “il lavoratore ha diritto” solitamente si intende dire che “l’azienda ha diritto”. Il rischio è che un lavoratore con gravi patologie possa ritrovarsi in malattia dall’oggi al domani, e con lo stipendio dimezzato.

CO.CO.PRO. – Dal 1° gennaio 2016, si diceva, scompariranno i co.co.pro (contratti a progetto) e i co.co.co (contratti di collaborazione coordinata e continuativa). In realtà questi ultimi sono stati superati con la riforma Biagi nel 2003, e rimangono solo in categorie specifiche: nella pubblica amministrazione, per i pensionati che collaborano, nelle società sportive, per i liberi professionisti iscritti ad ordini professionali, per gli amministratori di società. Per quanto riguarda i co.co.pro, invece, potranno rimanere anche loro se regolamentati da accordi collettivi. Significa che se l’azienda assieme ai sindacati vorrà optare per mantenere questo contratto, potranno farlo con uno specifico accordo. Servirà soprattutto ai call center, che usano molto questo tipo di contratto. Ma che fine faranno tutti gli altri co.co.pro? Matteo Renzi ha parlato di: "200mila nuovi contratti indeterminati". Ma non c’è nessun obbligo, motivo, o evidenza che possa portarci a pensare questo i co.co.pro ora verranno tutti assunti. Al contrario,  la logica porta a pensare  che verranno commutati in contratti simili a quello precedente. Ma in questo caso perfino peggiori: partita Iva, voucher, a chiamata.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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