“C'è un bivio decisivo, fra l'Italia che dice sì e quella che dice sempre no. E per questo faremo una gigantesca campagna porta a porta per convincere gli italiani a dire sì. Io girerò come un globetrotter, noi gireremo come dei matti, ma non saremo noi a vincere questa battaglia, dovete essere voi a mobilitarvi. Io non cambio idea, se perdo vado a casa, perché la rottamazione vale anche per me”. Con queste parole Matteo Renzi ha di fatto lanciato la lunga campagna per il sì al referendum sulla riforma della Costituzione che porta la firma sua e del ministro Maria Elena Boschi. Un appuntamento sul quale il Presidente del Consiglio sembra aver investito molto, per non dire tutto, considerando che ha più volte ripetuto che, in caso di bocciatura della riforma, rimetterebbe il suo mandato e sostanzialmente si ritirerebbe dalla vita politica.
Una scommessa rischiosa, considerando gli ultimi sondaggi. Un rischio forse inutile, per un capo del Governo che ha la possibilità di guidare l’esecutivo senza troppi problemi almeno fino alla scadenza della legislatura. Ma anche uno snodo politico decisivo per la sua carriera e, probabilmente, per il governo del Paese nei prossimi anni.
Per comprendere a fondo il senso della personalizzazione del referendum impostata da Renzi, bisogna però fare qualche ulteriore considerazione, in modo da contestualizzare la consultazione referendaria e la campagna elettorale a essa collegata.
La prima motivazione è di carattere strettamente strategico: caricare di valore la consultazione referendaria equivale ad allentare la pressione sulle imminenti (e complicatissime) elezioni comunali; spendersi in prima persona sul referendum confermativo e legare a esso la propria sopravvivenza politica vuol dire anche disinnescare in anticipo i possibili contraccolpi di un flop alle elezioni amministrative (Napoli è persa, Renzi lo sa bene, Roma quasi, Torino come grande incognita e via discorrendo).
La seconda idea che muove Renzi è di carattere più strettamente politico. È evidente che la riforma della Costituzione, tanto nel merito quanto nel metodo utilizzato per approvarla in Parlamento, costituisce una summa efficace del "renzismo": dirigismo, centralismo, fastidio per i tempi lunghi della burocrazia, rinnovamento "istituzionale" ma senza salti nel buio, utilizzo del consenso personale come leva politica, mediazione "result oriented" e una certa dose di spericolatezza nelle alleanze. Il ddl Renzi – Boschi, poi, nasceva dall'impegno preso con l'allora Presidente della Repubblica Napolitano ed era in un certo qual modo la garanzia che l'ex Sindaco di Firenze "facesse sul serio", avesse cioè la volontà di lasciare il segno cambiando se non il Paese, almeno le istituzioni. Non è un caso che a tal fine, Renzi si fosse spinto laddove nessuno era mai andato: il Cavaliere al Nazareno, un'alleanza organica e rischiosa sulle riforme, sia pure fra mille contraddizioni e ipocrisie.
Ma non è tutto. Renzi sa di avere la possibilità di ottenere una nuova e decisiva legittimazione grazie al voto popolare e non vuole lasciar cadere un'occasione del genere. Se già il voto delle Europee 2014 aveva rappresentato il momento di svolta del suo mandato a Palazzo Chigi, il via libera alla riforma della Costituzione costituirebbe una sorta di via libera alla "fase tre", sancendo l'apprezzamento dei cittadini per l'operato dell'esecutivo e, di fatto, autorizzando il Presidente del Consiglio ad andare fino in fondo, a fine legislatura e non solo. A portare alle estreme conseguenze un ragionamento di principio: se questa coalizione sta ben governando e ha l'apprezzamento degli italiani, non c'è ragione per non formalizzare anche un'alleanza elettorale.
C'è poi una ragione di "prospettiva" che spinge Renzi a pigiare sull'acceleratore. E lo ha sostanzialmente rivelato lo stesso Matteo Renzi:
Mobilitare centinaia di migliaia di persone, con 10mila comitati costruiti sul modello delle primarie del Partito Democratico del 2012, significa poter disporre di una potenza di fuoco enorme, ma soprattutto costruire una base "che vada oltre" il recinto del partito. Una rete capillare sul territorio, in grado di agire, produrre e moltiplicare il consenso, ma che soprattutto ha lui come stella polare, senza corpi intermedi e legacci statutari. Una struttura molto più agile del partito, che risponderebbe a lui soltanto proprio per il modo in cui Governo, carriera politica di Renzi e riforma costituzionale sono legati.
Insomma, una sfida, che può anche essere una vera e propria trappola per le opposizioni. Che hanno accettato la personalizzazione dello scontro senza pensarci troppo su e ora rischiano di dover fare i conti con un Renzi "potenziato" da un eventuale successo elettorale.
Successo non scontato, si dirà. Ma le opposizioni partono ad handicap e pare non se ne siano accorte: devono capovolgere una narrazione tra "l'Italia che dice sì" e i gufi / disfattisti, devono mettere in piedi strumenti più forti delle semplici polemiche da social network, devono trovare una linea d'azione comune e compattare un fronte eterogeneo e disgregato, devono colmare le lacune nel campo della copertura mediatica, devono mettere in piedi una contromobilitazione efficace, incisiva e continuativa, devono convincere gli italiani che il no alla riforma non porterà instabilità, terrore e morte nel Paese. Non la cosa più semplice al mondo.
Conteranno i voti, certo. Ma l'autunno sta arrivando e c'è chi rischia di non arrivarci preparato.