Negli anni in cui, prima come gestore e poi come analista finanziario indipendente, ho avuto modo di seguire vicende di borsa una cosa mi è apparsa sempre più chiara: nulla è mai come appare e per capire la “ratio” di alcune operazioni o il perchè dell'andamento di alcuni titoli occorre “seguire il denaro” (follow the money). Così mentre dal settore editoriale ed in particolare dalla stampa vengono notizie che definire poco allegre è un eufemismo (solo ieri il gruppo L’Espresso, che fa capo alla Cir della famiglia De Benedetti, ha segnalato come nel primo trimestre la raccolta pubblicitaria su carta del gruppo sia calata su base annua del 9,7%, ovvero del 14,6% se si includono anche le concessioni di terzi) e mentre gli analisti, ad esempio quelli del Credit Suisse, restano cauti sui tempi di una ripresa del settore, il titolo Rcs MediaGroup, traballante “salotto buono” dell’imprenditoria italiana che per anni ha fatto capo a Mediobanca, continua a ben performare in borsa.
Per la precisione con l’1,85% di rialzo odierno il titolo sfiora orma gli 11 punti percentuali di guadagno negli ultimi 3 mesi (+3% il bilancio delle ultime 5 sedute borsistiche). Semplicemente qualche operazione di arbitraggio all’interno del comparto, come sembrerebbero indicare le performance nettamente più deludenti di titoli come Mondadori (+2,3% oggi ma -4,7% sulla settimana), Mediaset (+1,18% oggi, -9,35% in settimana), Cairo Communication (+2,9% e -13,15% rispettivamente) e persino L’Espresso (+3,8% in giornata, -6,2% sui cinque giorni)? Possibile, visto che negli ultimi 12 mesi l’editore del Corriere della Sera è rimasto ampiamente indietro rispetto ai concorrenti: -42,3% è il risultato di Rcs Mediagroup nell’ultimo anno contro il +109% de L’Espresso, il +100% di Cairo Communication, il +122,7% di Mediaset e il +38,5% di Mondadori.
Ma c’è anche chi azzarda un’altra spiegazione: complice l’avvicinarsi delle elezioni europee e il progressivo sfaldarsi di Forza Italia legato anche all’irrisolto problema di una successione del suo padre-padrone Silvio Berlusconi, con la stagione delle “grandi intese” che hanno sostenuto i governi Monti e Letta che appare in qualche misura superata dalla salita al Quirinale di Matteo Renzi, il controllo del primo quotidiano cartaceo d’Italia sembra tornare un asset “strategico” almeno per una parte della classe dirigente italiana, a partire da Giovanni Bazoli, presidente del Consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo (che di Rcs è socia al 6,54%) indicato come “nume tutelare” degli equilibri attuali, minacciati dall’ipotesi di un gruppo Fiat intenzionato a riappropriarsi del suo ruolo storico di azionista principale (attualmente al 20,55%), magari per procedere ad una fusione tra La Stampa e il CorSera.
Bazoli è un “arzillo vecchietto” secondo Diego Della Valle, a sua volta tra i soci di Rcs con un 8,995% di capitale che finora è parso “pesare” meno della quota di Intesa Sanpaolo, che dopo essere stato su una diversa barricata rispetto a Enrico Cuccia, storica guida di Mediobanca (la cui partecipazione in Rcs è nel frattempo calata dal 15% al 9,93%, per di più classificato come asset disponibile alla vendita) e in tal veste assunto a “protettore” del capitalismo familiare-relazionale italiano, sembra averne ereditate molte caratteristiche a cominciare da una notevole discrezione. Così a muoversi per garantire lo status quo non sarebbe direttamente Intesa Sanpaolo, tra l’altro impegnata ad alleggerirsi di partecipazioni “di sistema” eredità delle gestione di Corrado Passera, spesso rivelatesi poco remunerative per i suoi azionisti (e in più di un’occasione foriere di perdite anche sotto il profilo industriale, ossia dei finanziamenti accordati alle stesse aziende partecipate), bensì uomini a lei vicini.
Chi? Secondo alcune ricostruzioni giornalistiche a comprare azioni Rcs potrebbe essere stato nelle ultime settimane il finanziere statunitense (di origine ungherese) George Soros, che avrebbe già incontrato i vertici di Mediobanca e Intesa Sanpaolo per valutare l’eventuale acquisizione delle loro quote, arrotondare ulteriormente la partecipazione e poi proporre un patto a Della Valle per ostacolare Fiat. Ipotesi che sulla carta sta in piedi visto che tra acquisti sul mercato, quote delle banche e patto col patron della Fiorentina Soros potrebbe mettere assieme un blocco vicino al 25%-30% dell’azionariato, sufficiente a controbilanciare Fiat senza neppure la necessità di far scattare un’Opa (che scatterebbe in caso di acquisti o nuovi patti superiori al 30% del capitale). In pratica però la “divergenza di temperamento” tra Della Valle e Bazoli rende poco verosimile questa ricostruzione.
Così a muoversi potrebbero essere altri soci, come Mittel, holding bresciana di cui Bazoli è stato per anni presidente che possiede un 1,5% di Rcs ed è a sua volta controllata dalla Carlo Tassara del finanziare franco-polacco vicino a Bazoli, Roman Zaleski, che con quasi 2 miliardi di debiti bancari è stato costretto ad abbandonare i sogni di gloria e iniziare un lungo (e lento) processo di dismissione delle partecipazioni accumulate a caro prezzo in anni precedenti la crisi finanziaria mondiale del 2008, tra le quali spicca proprio un 15,35% di Mittel (ma anche uno 0,7% di Generali, un 1,14% di Bpm, un 1,7% di Cattolica Assicurazioni e di Intesa Sanpaolo e quote minori in Ubi Banca, A2A eMps). Dato che, ragionano alcuni operatori, Bazoli non può più far conto su Zaleski come propria “longa manus”, occorre mettere in sicurezza Mittel e le sue partecipazioni.
Come? Secondo alcuni grazie all’intervento del fondo Investindustrial di Andrea Bonomi (altro nome storicamente vicino a Mediobanca e ai “salotti finanziari” milanesi), che dopo essere uscito dall’avventura poco fortunata in Bpm avrebbe studiato un’offerta “amichevole” per rilevare una partecipazione importante (a cominciare, si capisce, dal 15,35% in mano alla Calo Tassara) di Mittel. Senonché Investindustrial ha comunicato ufficialmente “non c’è alcuna trattativa in corso in relazione a Mittel”. Così altre voci hanno suggerito che a muovere il titolo (oggi in calo dopo il balzo di ieri) sia stato in realtà un altro finanziere, Vincenzo Manes, che già a fine 2003 aveva levato una castagna dal fuoco a Bazoli, rilevando attraverso I2 Capital (società di private equity all’epoca controllata congiuntamente da Intek e Banca Intesa) il 95% di Idra Casting Machines (Icm, ossia il veicolo finanziario che aveva rilevato gli asset della bresciana Idra Presse, messa in liquidazione con 162 milioni di euro di passivo, dopo una sfortunata parentesi borsistica) fino a quel momento detenuto dalla stessa Banca Intesa.
Manes oltre a sapersi muovere con discrezione ed efficacia, ha anche un altro paio di meriti: è un finanziere filantropo (tra l’altro ha dato vita nel 2003 a Fondazione Dynamo, di cui è presidente operativo, fondazione che si occupa di venture philantropy e si è data la missione di creare imprese e occupazione) ed è stato tra i finanziatori di Matteo Renzi (il premier lo ha citato di recente come esempio da seguire per la valorizzazione del terzo settore), tanto che qualcuno lo vuole in pole position per presiedere un fondo pubblico-privato destinato al volontariato in grado di diventare impresa col quale rilanciare l’occupazione in Italia. Insomma: Manes è (o sarebbe) l’uomo della Provvidenza o quanto meno la figura adatta a reggere i delicati equilibri di uno degli ultimi “salotti buoni” italiani, sempre più acciaccato. Sembra fantafinanza, potrebbe essere tutto vero.