Primo passo della Camera contro il burqa. Tra sicurezza pubblica, libertà ed integrazione
Il primo sì della commissione Affari Costituzionali della Camera al disegno di legge che prevede il divieto di indossare in luoghi pubblici il burqa, il niqab e altri indumenti etnici che nascondono il volto della persona, non passerà sicuramente inosservato. Come successo in altri Paesi, i pro e i contro sono tanti e non si esauriscono in poche battute perché le ragioni dell’una e dell’altra parte possono essere migliaia, da quelle religiose, a quelle libertarie.
Il testo va a sostituire la legge del 1975 che, nell’ambito di misure antiterrorismo, vietò l'uso del casco e di altri indumenti che nascondessero il volto. La nuova legge oltre a vietare qualunque oggetto che coprendo il volto renda irriconoscibili, per la prima volta nomina direttamente il burqa, (l’indumento che copre completamente il corpo della donna dalla testa e con solo una retina davanti agli occhi) e il niqab, (serve per velare il volto lasciando solo lo sguardo libero) usati dalle donne di religione islamica, ma anche qualsiasi indumento di origine etnica. La nuova legge, che si discuterà in aula a settembre, è ancora più severa perché prevede multe fino a 500 euro per chi non rispetta il divieto.
Di questa legge si discute dal 2007, e negli anni quasi tutti i partiti hanno presentato proposte di legge sul tema, sicuramente molto diverse, a seconda della maggiore sensibilità verso religioni e tradizioni differenti, a tutti, però è sembrato necessario intervenire sulla materia con una legge ad hoc, anche perché nuovi sviluppi si sono avuti nella globalizzazione e nel movimento di uomini e culture. Molti sono stati nel corso del tempo quelli che per sottolineare la natura non anti islamica di una nuova legge, hanno voluto ricordare che indossare il burqa non è previsto espressamente nel Corano, e come per tantissime donne di fede islamica basta indossare semplicemente il velo che copre il capo.
Molti si chiederanno se, per evitare polemiche, era necessario specificare nella legge il divieto di indossare burqa e niqab o non bastava essere più generici tenendo presente, come detto dalla Senatrice Bonino, che “così come non vado col casco in classe, non metto il velo”. Proprio questa scelta secondo molti rende la legge intollerante, e non aiuta, come si vorrebbe far credere, le donne islamiche ad integrarsi, portando anzi molte giovani donne, come sta accadendo in Francia, a volerlo indossare per reazione o per difendere le proprie tradizioni ostacolate dal benpensante mondo occidentale.
In un Paese come l’Italia dove il problema non sembra così ingestibile, in quanto trovare donne che indossano questi abiti è veramente raro, ci si chiede una legge era così necessaria? Non ci sono problemi più urgenti che riguardano gli immigrati che muoiono sui barconi o che si rivoltano nei Centri di Prima accoglienza? Ma forse il benaltrismo, come lo ha chiamato qualcuno, oggi è meglio iniziare a metterlo da parte, altrimenti si avrà sempre ben altro a cui pensare. Di emergenza non si tratta è vero, ma si potrebbe obiettare che ciò significa che il Parlamento deve legiferare solo sulle emergenze? E perché non si può decidere su questioni che prima o poi bisognerà affrontare? Per molti le usanze arcaiche e discriminatorie si possono combatterle lavorando per l'integrazione. L’integrazione, sì certo, è importante ma quale è il modello migliore, questione su cui si discute da decenni, quello francese che tende ad assimilare, col rischio di far riemergere voglia di tradizioni nelle seconde e terze generazioni di migranti, o quello britannico più aperto a rispettare le tradizioni purché non vadano ad intaccare i costumi locali, col rischio di ghettizzare? Le decisioni non sono per nulla semplici, ma mettere i primi paletti può aiutare a capire dove vogliamo andare.
Le divisioni sulla questione non sono certo a compartimenti stagni, anche all’interno del mondo musulmano la spaccatura esiste e anche in questo caso le posizioni sono tantissime. C’è chi, come l'Unione delle Comunità islamiche in Italia, reputa ingiusta questa legge perché contraria alle libertà individuali, ma anche chi ha una posizione più complessa, ossia non è favorevole al burqa, ma nemmeno a una proposta di legge che “si potrebbe tradurre in una penalizzazione per quelle donne che, per scelta non contrattabile o per costrizione, indossano il velo integrale” come dichiarato da Silvia Layla Olivetti, portavoce del Movimento per la tutela dei diritti dei musulmani.
Ma il vero cuore della ddl forse è un altro, nelle intenzioni della relatrice, Souad Sbai, deputata italo-marocchina del Pdl, questi provvedimenti potrebbero aiutare le donne a ribellarsi perché si sentirebbero più tutelate, come lo sono già in Francia, Belgio e nel musulmano Azerbaijan, dove esiste una legge simile. Il testo, infatti, non si ferma alla sanzione per il trasgressore ma prevede anche altri due articoli, quelli più innovativi, che cercano di colpire al cuore la segregazione. Il secondo articolo del ddl stabilisce che è un reato obbligare o costringere una persona, con violenza e minacce, ad indossare il burqa o indumenti simili. Le sanzioni previste in questo caso arrivano fino a 30.000 euro e si rischia anche la reclusione fino a 12 mesi, che aumenta fino a 18 se la persona costretta è un minore o un disabile. Infine l’articolo tre che stabilisce che è preclusa l'acquisizione della cittadinanza italiana per chi sia stato condannato in via definitiva per questo nuovo reato. Certo gli effetti non saranno così automatici, anzi alta è la probabilità di ottenere l’esito opposto, perché in fondo mica è facile vedere un padre o un fratello finire in prigione, ma la libertà si sa, ha sempre avuto un costo.