Viaggio di un famigliare di una vittima nell’orrore di Cutro: la lettera di Alidad Shiri a Fanpage
di Alidad Shiri
Domenica, 26 febbraio, i telegiornali hanno incominciato a dare le prime notizie del naufragio a Steccato di Cutro, in Provincia di Crotone. Si rimane colpiti, ma se la notizia non ti tocca direttamente, si tende a generalizzare come rassegnati a queste disgrazie. Nei giorni successivi si riscontra che sta aumentando spaventosamente il numero dei morti. Il presidente della Repubblica Mattarella si reca subito sul posto per rendere omaggio in silenzio alle salme delle vittime di cui ormai la sala PalaMilone è piena, e su invito di associazioni che sono sul posto (Sabir, Mem-Med) si intrattiene con i famigliari delle vittime, giunti da diversi paesi.
Vedo sui gruppi Whatsapp degli afghani che aumentano le richieste di aiuto sia da parte di famigliari lontani che cercano informazioni, sia da parte di vicini che hanno difficoltà con la lingua per contattare le autorità. Ricevo tante chiamate di persone che non conosco giovedì pomeriggio, ma come al solito, se non conosco non rispondo. Anche mia cugina, che è arrivata in Italia dopo la presa del potere dei talebani in Afghanistan, mi chiama tre volte. Dato che sono occupato nel lavoro, non posso rispondere neanche a lei. Mi aveva lasciato un messaggio vocale che mi avvisava della presenza sulla nave di nostro cugino.
Venerdì mattina, mentre esco dall’ambulatorio del medico di base, vedo che lei mi ha chiamato di nuovo. Provo a richiamarla e sento che piangendo. Mi conferma la triste notizie: su quella nave si trovava anche nostro cugino, che io non avevo mai visto perché ha solo 17 anni. Pur non conoscendolo, non riesco a trattenere le lacrime. Conosco quel tipo di viaggio che ho intrapreso, bambino, proprio 17 anni fa, e che mi ha portato dalla Turchia alla Grecia. Conosco quelle paure, quel silenzio di notte in cui anche se non c’è niente intorno, si teme quasi di essere notati, quel mal di mare che ti fa vomitare, quel tanfo che deriva dall’essere in così tanti stretti dentro lo scafo senza poter prendere una boccata d’aria. Ci unisce la speranza di arrivare in un posto dove potere vivere, avere diritto di parlare, di ascoltare la musica, di studiare, di lavorare, di poterti radere la barba senza che qualcuno te ne controlli i centimetri, di vestirti come vuoi, anche di pregare, ma senza costrizioni da parte della polizia morale del regime, senza che qualcuno ti frusti e ti arresti perché non frequenti la moschea.
Avviso subito i responsabili del mio lavoro che dovrò assentarmi qualche giorno per partire immediatamente per Crotone. Vedo che in treno occorrono un sacco di ore. Noto contemporaneamente sulla rete degli afghani che cercano urgentemente interpreti che si rechino sul posto. Alcune persone danno la disponibilità da Roma, allora chiedo di unirmi a loro. Così parto da Bolzano con il primo treno per Roma. Mentre sono in viaggio cerco contatti per un alloggio a Crotone. Un professore, Antonio di origine calabrese, mi mette in contatto con suo amico, l'avvocato Vincenzo, che mi trova subito un B&B.
Insieme agli amici afghani – Khan, Assad, Dawood e Fatema – che mi aspettano a Roma, ci troviamo a casa di Jan che mette a disposizione un gruppo di lavoro in cui inserirci, per partire noi cinque di notte in macchina. Dopo Cosenza troviamo anche la neve, qualcuno non la vedeva da tanto, ci fermiamo per toccarla. Khan, che guida, procede piano piano perché non abbiamo le catene anche se le gomme sono invernali. Arriviamo a Crotone alle 8. Dopo una breve pausa per la colazione, Vincenzo ci chiama per dirci che il proprietario della casa ci aspetta per lasciare le valigie e consegnarci le chiavi.
Cerchiamo di capire dove si trova la sala PalaMilone dove hanno portato le salme. Arriviamo lì davanti: tantissimi giornalisti fuori dal cancello, foto di alcune vittime appese alla ringhiera con sotto fiori che lasciano abitanti del posto e famigliari. I due poliziotti che controllano la porta ci fanno entrare. La porta della sala è ancora chiusa, non sono ancora arrivati la Polizia scientifica e il medico legale. Vedo una piccola tenda con dentro alcune sedie e su un tavolino delle bevande appena appoggiate da una volontaria della Croce Rossa. Cerco Manuelita, responsabile dell’Associazione Sabir, che avevo già sentito per telefono, a cui avevo mandato la foto di mio cugino.
Vedo aprirsi la porta per l’arrivo del medico legale, ma per entrare nell’ufficio della Polizia scientifica occorre avere un numero che viene dato dalla Croce Rossa. Prendo subito il primo numero, ancora prima di entrare nell’ufficio vedo il medico e gli mostro la foto di mio cugino. Lui mi dice che c’è il corpo di uno che gli assomiglia. Entriamo in ufficio e chiedo a Dawood e Fatema di accompagnarmi. Ci sediamo, consegno il mio cellullare con la foto, lui cerca nel pc la persona che gli assomiglia e mi chiede se voglio guardare le foto, però mi avvisa che sono pesanti. Rimango per qualche secondo senza parole, penso dentro di me se sono pronto a vedere qualcosa di terribile che non avevo mai visto.
Mi risveglio con la domanda del medico: "Allora?". Trovo coraggio e mentre Dawood da una parte e Fatema dall’altra mi sostengono, rispondo di sì. Lui gira lo schermo verso di me, vedo la parte superiore del corpo di un ragazzo ferito nel viso, con gli occhi aperti. Guardo la mia foto, riguardo l’immagine e vedo che gli assomiglia molto. Però, dico, non l’ho mai visto di persona. Provo a chiamare sua sorella, ma non risponde. Dico al medico che devo aspettare il riconoscimento da parte sua, lui mi dice che non c’è problema, che abbiamo tempo.
Dieci minuti dopo mi chiama lei. Accendo la videochiamata. Guardando la foto si mette subito a piangere, mi dice che al 98% sembra lui, ma rimane un minimo spazio di dubbio. Mi chiede di andare a parlare con qualcuno che era con lui in viaggio. Mi informo e vedo che un ragazzo di 16 anni in viaggio con lui è ricoverato all’ospedale di Crotone, a pochi passi dalla sala dove mi trovo. Scopro che per parlare con lui devo avere l’autorizzazione del suo tutor che è un avvocato. In quel momento di disperazione cerco di chiedere a tutti se hanno notizie, mostrando la foto di mio cugino.
Poco dopo vedo un autobus della Protezione civile che fa scendere dei sopravvissuti che entrano nella sala per omaggiare i famigliari persi. Parlo con un ragazzo, scopro così che appartiene a una famiglia numerosa: ventuno persone che erano sulla nave, di cui solo cinque sono sopravvissuti, dieci morti e sei dispersi. Lui mi dice che non è al centro di accoglienza con loro, ma l’aveva visto sulla nave. Mi fa vedere una foto di quel ragazzo di 16 anni ricoverato in ospedale e io subito la mostro ad un operatore dell’associazione Sabir, Ramzi. Lui conosce l’avvocato, il tutor del ragazzo, e parlerà con lui.
Io rimango dalla Scientifica a dare una mano a una famiglia arrivata dall’Olanda per il riconoscimento di tre loro nipoti. La sala risuona di pianti ogni volta che avviene un riconoscimento. Verso le 15 chiedo a Federica della Croce Rossa se, nel caso in cui mi arrivi l’autorizzazione, può accompagnarmi in ospedale a parlare con quel ragazzo. Esco, vedo Ramzi e gli chiedo se può mettermi in contatto con quell’avvocato. Lui lo chiama subito al cellulare, mi presento all’avvocato che dice subito di sì, perché anche il ragazzo, Ali, ricoverato, cerca il suo amico.
Mi accompagna Federica in Pediatria, parlo con il ragazzo ma veniamo subito interrotti dalla dottoressa, che ci sgrida. Esce un momento con Federica a chiamare i suoi responsabili, mentre io ne approfitto per descrivere velocemente al ragazzo la foto che mi aveva fatto vedere la Scientifica. Lui mi risponde che non è mio cugino, così esco dalla stanza. Federica mi dice che la dottoressa ci fa storie perché avremmo dovuto chiedere tanti permessi. Alla Procura, all’Azienda Sanitaria. Non basta la sola autorizzazione del tutor. Usciamo, Federica torna in sala PalaMilone, mentre io vedo i miei amici al parcheggio e con loro andiamo davanti alla Prefettura alla manifestazione dei famigliari con la presenza di tanti abitanti della zona, associazioni locali e giornalisti.
Prendo anch’io la parola e faccio un appello, se qualcuno ha visto un ragazzo dai connotati di mio cugino. Subito dopo la manifestazione andiamo a Cutro, che è a 40 minuti di macchina da Crotone. Percorriamo una strada piena di buche. A un certo punto perdiamo l’orientamento per arrivare sul posto della tragedia.
Ci fermiamo un momento vicino a una casa da dove esce una donna che ci spiega che il marito sta per arrivare e ci accompagnerà sul posto. Si sente un po' in colpa, ci dice, perché non lontano dalla spiaggia una nave arrivava nella tempesta e nessuno l’ha soccorsa. Veniamo preceduti dalla loro macchina e arriviamo su quella spiaggia dove si è verificata questa immane tragedia. È già quasi buio, però vediamo la Guardia costiera, i Vigili del fuoco, i Carabinieri e la Guardia di finanza che continuano le ricerche. Rimaniamo a osservare il posto, il mare è ancora mosso, io parlo con i due carabinieri e li ringrazio per il loro impegno. Presto diventa buio e rientriamo a Crotone.
Abbiamo fame perché non abbiamo mangiato per tutto il giorno, andiamo subito in una locanda. Ci rechiamo nella casa che ci ospita verso le 23. Ci mettiamo subito a letto perché siamo stanchi morti, ma non riesco a dormire. Mi torna ancora in mente l’immagine di quel ragazzo che assomiglia tanto a mio cugino, con gli occhi aperti da non sembrare morto.
Riesco ad addormentarmi solo dalle 3 fino alle 6, quando mi sveglio all’improvviso. Di nuovo ci ritroviamo alle 9 davanti a quella sala. Alle 9.30 sono nell’ufficio della Scientifica. Entra il padre della famiglia che avevo aiutato il giorno prima nel riconoscimento dei famigliari, mostrando una foto: assomiglia a quel ragazzo che pensavo fosse mio cugino. Era invece di un ragazzo di 21 anni, veniva da Herat al confine con l’Iran, dove per vent'anni sono stati anche i militari italiani a combattere i talebani. Chiamiamo i famigliari in videochiamata, mostriamo le foto, si mettono a piangere, lo riconoscono anche dal tatuaggio.
Subito dopo arriva un’altra famiglia di Badghis, una città del Nord Afghanistan. Sono scesi dalla Germania per riconoscere la figlia e il genero che avrebbero dovuto raggiungerli. Di nuovo scene di pianto e disperazione. Così giorno dopo giorno sono immerso in un mare di dolore. La notte non riesco a dormire, le occhiaie sono sempre più visibili perché corro qua e là dove mi richiedono un servizio, senza riuscire a mangiare un panino fra i generi di conforto che distribuisce la Croce Rossa.
Martedì entra in ufficio una donna, di nome Zahra, proveniente con il marito dalla Finlandia, che cerca il fratello di 23 anni che era sulla nave. Ci fa vedere la sua foto, la guardiamo ma non troviamo un’immagine corrispondente. Vorrebbe vedere le foto dei sopravvissuti che si trovano al centro e quelli in ospedale. Poi vorrebbe anche vedere le foto di persone morte, già riconosciute, perché magari, dice, tra loro c’è suo fratello. Si arrabbia di fronte al diniego. Esce sbattendo la porta, la seguo per calmarla e vedo che si dirige verso la sala dove ci sono le salme. C’è un clima pesante: una donna piange sdraiata davanti alla bara del figlio, un ragazzo piange e ripete il nome della sorella che ha perso, si sente in colpa per non essere riuscito a salvarla. Un filo più in là una mamma e un papà davanti ad alcune bare fanno risuonare dal loro cellullare alcuni versetti del Corano e pregano.
Zahra vorrebbe andare sul posto del naufragio, ma non ha la macchina e noi, io e Assad, che abbiamo noleggiato un’auto, ci offriamo di accompagnarla. Arriviamo sul posto e lei cerca disperatamente di trovare qualcosa che le parli del fratello. Non troviamo niente. Alle 18 torniamo indietro.
Mercoledì mattina sono nell’albergo messo a disposizione dei famigliari, dove poi arrivano anche i superstiti. Trovo un messaggio di Simona, giornalista della Rai, che mi chiede se c’è una donna disponibile a raccontare per 40 secondi qualcosa della tragedia vissuta. Intorno a me vedo però che ci sono poche donne, quelle che si sono salvate sono solo cinque afghane e una somala. Ecco la tragedia nella tragedia: sono morte moltissime donne e bambini perché non sapevano nuotare. Convinco la signora di Herat, che fa parte dell’unica famiglia che si è salvata interamente, a dire qualcosa. Lei racconta della sua partenza, che era una donna istruita e quindi perseguitata. Parla della disperazione di quella notte, con la tempesta, i pianti, le urla dei bambini, degli adulti che lottavano per non morire.
Con Assad torniamo verso la sala PalaMilone, ma notiamo davanti al posto un assembramento: i famigliari delle vittime sono agitati perché hanno sentito la notizia che tutte le salme saranno portate a Bologna per la sepoltura nel cimitero islamico. Vediamo due auto funebri che stanno uscendo. Le blocchiamo mettendoci fisicamente davanti. Il funzionario della Prefettura ci dice che sono salme di cui non sono stati ancora trovati i famigliari, ma continuiamo a bloccare l’uscita. Tanti giornalisti trasmettono dal vivo la nostra protesta. Ci sediamo per terra, quando mi raggiunge la voce di un’amica. È l'avvocata Francesca, accompagnata dall’avvocato Vincenzo, insieme ad altri due colleghi di Torino. Mi propone di andare con loro in Prefettura per capire quello che sta succedendo.
Appena entrati, un giovane funzionario ci dice che la Prefetta è impegnata in un incontro, non può riceverci. Lui dice che è una decisione del governo quella di trasferire tutte le salme a Bologna, ma non ci ascolta quando gli ricordiamo le promesse del Presidente Mattarella di fare arrivare in Afghanistan i corpi, per chi lo desidera. Torniamo alla manifestazione e cinque minuti dopo un cronista mi si avvicina facendomi vedere un comunicato del governo in cui dice che ascolterà la volontà dei famigliari. Subito dopo mi cercano un dirigente della Digos e uno della Scientifica per invitarmi ad andare con loro in Prefettura dato che la Prefetta vuole parlarmi. Rispondo seccamente di no, perché prima non ero stato ricevuto. Se vuole comunicarmi qualcosa, può venire lei davanti a tutti i giornalisti e i famigliari.
Un’ora dopo vengo di nuovo chiamato davanti alla sala dove i giornalisti non hanno accesso. Vedo che mi si avvicinano la Prefetta, il Questore e il Sindaco. La Prefetta si leva la mascherina per parlarmi e mi dice che il governo italiano non ha contatti con i talebani e non tratta con loro. Rispondo prontamente che questo è anche comprensibile, ma sono passati ormai dodici giorni e potevano essere avviati contatti con le Nazioni Unite che potevano mediare. La discussione va avanti fino alle 18, chiamando anche il presidente della Comunità musulmana di Italia, Yasin. Poi chiedo: se le famiglie trovano un’agenzia che può portare le salme a Kabul, il governo è disposto a pagare?
Veniamo raggiunti da due dirigenti del ministero dell’Interno che cercano di velocizzare le trattative, perché hanno più potere rispetto alle autorità locali. Accettano di pagare le spese, quindi cerchiamo di contattare agenzie tedesche che hanno più esperienza al riguardo. Rimaniamo fino alle 21 in sala. Alcuni famigliari accettano di seppellire i loro cari a Bologna, perché tanti di loro per motivi di lavoro non possono fermarsi altri giorni. Però prima di uscire dalla sala chiedo al sindaco di promettere che le salme non siano portate via di notte, dove i parenti non vogliono. Lui ci garantisce che non accadrà. Non ho più forze, perché sono stato in piedi tutto il giorno, senza mangiare, nella tensione delle trattative. Nemmeno il mio amico – con cui in macchina ci dirigiamo verso l’albergo – ha più forze, però ci confortano alcuni famigliari che si intrattengono ancora qualche minuto con noi, dimostrandoci riconoscenza e dicendo: Dio dà la forza non a tutti, ma a qualcuno, e voi due siete tra quelli.
Quel giorno mentre ero sulla strada, prima della trattativa, tanti cittadini del posto si sono avvicinati a noi, alcuni piangendo, comunicandoci tutta la loro solidarietà e vicinanza, arrabbiati per come ci trattavano le istituzioni. Arriviamo in albergo sfiniti, senza avere mangiato, ci basta un boccone e ci ritiriamo nelle rispettive stanze. Ma non è ancora finita, perché continui messaggi della Prefettura mi chiedono il numero dei famigliari che accettano la sepoltura a Bologna. Il giorno dopo siamo di nuovo alle prese con riconoscimenti: è straziante vedere ancora le immagini di bambini, donne, uomini con gli occhi spalancati, la bocca aperta e i capelli ritti, alcuni nudi perché la forza delle onde li ha privati di tutto.
Seguono i contatti con le agenzie che sono già arrivate sul posto, ma tutto è fermo perché l’ufficio del Comune di Cutro, che deve dare il permesso di uscita delle salme, è chiuso per l’arrivo del Consiglio dei ministri. Rimane tutto in sospeso, noi con il sindaco nella sala di tanto dolore, con le lacrime dei famigliari. La maggior parte delle vittime, di cui ho visto i documenti, erano funzionari e parenti del personale di due ministeri, Interno e Difesa, che hanno sempre combattuto i talebani. Rischiavano continuamente la vita rimanendo in Afghanistan. Pensavano che il viaggio fosse un rischio minore, anche per le loro famiglie, rispetto al rimanere in quel posto, che era una condanna a morte prima o poi. Avevano grandi sogni, alcuni volevano diventare astronauti e avevano addirittura contattato la Nasa. Tanti volevano diventare avvocati, giornalisti, magistrati, ingegneri. Cercavano libertà, donne e uomini, un futuro diverso per i loro bambini che noi in Occidente diamo per scontato.
Mi si è riaperta una grande ferita. Anche io ho sofferto tanto, sono dovuto fuggire da solo ancora ragazzino, perché non avevo altre possibilità per salvarmi la vita. Ho visto cambiare tanti governi in Italia, di centro, sinistra e destra. Promesse su promesse, ma ancora nessuna soluzione. E muoiono ancora tante persone innocenti, perché non si trovano vie legali con cui possano arrivare senza correre rischi così gravi. Anche il corridoio umanitario recente per 1.200 afghani non è stata una soluzione reale, perché tanti non avevano il passaporto necessario come prevedeva il protocollo. A volte penso che se una tragedia non ti tocca direttamente, difficilmente la capisci e spendi energie e risorse per prevenirla.