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Elezioni europee 2024

“Vi spiego perché solo il 2% delle persone in carcere riesce a votare”

Esiste una particolare categoria di elettori di cui nessuno sembra ricordarsi: i detenuti nelle carceri italiane. Sergio d’Elia, il segretario dell’ong Nessuno tocchi Caino, spiega in un’intervista a Fanpage.it perché per chi si trova in carcere “votare è una difficile corsa a ostacoli”.
A cura di Giulia Casula
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Mancano meno di ventiquattro ore all'apertura dei seggi per le elezioni europee di quest'anno. Durante quella che è stata un'accesa e intensa campagna elettorale, le diverse forze politiche del nostro Paese si sono rivolte ai cittadini italiani in cerca di voti e preferenze per portare i loro candidati a Bruxelles. Eppure esiste una particolare categoria di elettori di cui nessuno sembra ricordarsi, ovvero gli oltre 61mila detenuti presenti nelle carceri italiane. "Per loro votare è una lunga corsa ad ostacoli nella burocrazia comunale e carceraria", dice intervistato da Fanpage.it, Sergio d'Elia, segretario di Nessuno tocchi Caino, ong che dal 1993 si batte per l'abolizione della pena di morte nel mondo.

Sul totale della popolazione carceraria che potrebbe esercitare il diritto di voto, "di solito va a votare tra l’1% e il 2%, in pochissimi", aggiunge. Una situazione che l'ex deputato conosce bene perché l'ha vissuta sulla propria pelle. In carcere infatti, ha scontato dodici anni dopo esser stato condannato per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi. "Se costituzionalmente esiste l'imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato", spiega. Per il detenuto, "votare, compiere quel gesto, può essere l'inizio del cambiamento di un modo di pensare e per questo dobbiamo favorirlo".

Segretario, come funziona il voto all'interno delle carceri italiane?

Comincerei col dire che non tutti i detenuti possono votare. Chi è stato condannato ad una pena superiore a 5 anni fino all'ergastolo ha la cosiddetta interdizione perpetua dai pubblici uffici, tra cui appunto il diritto di voto. Sotto i 5 anni di pena l'interdizione può essere temporanea e può variare da un anno a cinque anni. Anche chi è in attesa di giudizio può votare. E non sono pochi: si tratta di un numero compreso tra il 25% e il 30% dei 61 mila detenuti presenti in Italia. Tuttavia, nelle carceri, luoghi di privazione della libertà, spesso si finisce per essere privati dell’esercizio di tanti diritti tra cui quello di voto.

Perché? 

Innanzitutto perché per poter votare bisogna che i detenuti sappiano che ci sono le elezioni. Ammesso che questo avvenga, chi si trova in carcere deve poter recuperare le propria tessera elettorale che spesso viene smarrita. Per fare ciò deve chiedere al proprio Comune di residenza, all'ufficio elettorale, la copia del documento, tramite naturalmente un parente o un familiare che si adoperi per richiederla. La copia dovrà comunque arrivare nelle mani del detenuto in tempo utile perché possa esibirla insieme a un documento d'identità al momento del voto, ma non basta.  Per poter esercitare il proprio diritto di voto chi si trova in carcere deve anche fare la cosiddetta “domandina”, termine ancora in voga nel gergo carcerario seppure abolito dall'ordinamento penitenziario. In sostanza il detenuto deve chiedere di poter votare al direttore che predisporrà una lista di tutti coloro che hanno manifestato tale volontà da inviare all’ufficio elettorale del Comune in cui è collocato il carcere. Il Comune dovrà poi nominare un presidente di seggio e allestire un seggio speciale almeno uno o due giorni prima delle votazioni. Si tratta di una corsa ad ostacoli della burocrazia comunale e carceraria. Solo chi vince riesce a esercitare tale diritto.

In base ai dati relativi alle precedenti tornate elettorali, in media quanti detenuti vanno a votare? 

Di solito va a votare tra l’1% e il 2% della popolazione carceraria. Sono in pochissimi. Alle scorse elezioni per esempio, in istituti come il Pagliarelli o l'Ucciardone, a Palermo, hanno votato sei o sette persone su oltre mille detenuti. Per questo motivo insieme a Elisabetta Zamparutti, la tesoriera di Nessuno tocchi Caino e la presidente Rita Bernardini abbiamo incontrato il capo del Dipartimento della polizia penitenziaria, Giovanni Russo, che ha poi recepito la nostra richiesta. Dal Dap è stata inviata una circolare in tutte le carceri che raccomandava una massima informazione e sono state poi diffuse, con un avviso nelle bacheche delle sezioni detentive, delle linee guida per poter esercitare il diritto di voto.

Qual è la situazione nel resto d’Europa invece? Ci sono delle differenze con il nostro paese?

L’Europa si muove fra due estremi. L’esempio più positivo è la Danimarca dove tutti detenuti possono votare e non ci sono interdizioni. In Regno Unito invece c'è l'interdizione totale, che tu sia in attesa di giudizio o meno. Per il resto d'Europa di sono situazioni diverse tipo quelle italiana con interdizione in base al tipo di reato o all'entità della pena. La cosa che bisogna che si capisca è che, se costituzionalmente esiste l'imperativo di risocializzare i detenuti e reinserirli nella società, fare esercitare loro quello che è un diritto sacro e un banco di prova della maturità acquisita dovrebbe essere interesse dello Stato. Per chi è entrato per aver commesso un fatto più o meno grave, cominciare già ad esercitare le regole della democrazia, potrebbe risultare più dolce e sicuro il  ritorno in società. Votare, compiere quel gesto, può essere l'inizio del cambiamento di un modo di pensare e quindi dovremo favorirlo perché è interesse della società.

Lei ha passato in carcere dodici anni dopo esser stato condannato nel 1978, per l’assalto di Firenze in cui venne ucciso l’agente di polizia Fausto Dionisi. In quei dodici anni è mai riuscito a votare?

No, non ho potuto votare perché avevo l'interdizione dai pubblici uffici. Non ricordo se in attesa di giudizio abbia potuto votare, non ho memoria di un seggio. Forse semplicemente perché era talmente dura e irta di ostacoli la corsa a esercitare il diritto di voto che poi uno finisce per rinunciare.

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Nella sua attività con Nessuno tocchi Caino lei lavora a stretto contatto con i detenuti, per cui le chiedo: qual è la loro percezione delle elezioni europee? Le avvertono come un qualcosa di lontano, che non li riguarda oppure c'è un interesse rispetto a ciò che accade in Europa?

Lontano o vicino è una dimensione molto relativa per i detenuti. Una cosa lontanissima può essere resa prossima da chi informa. E questo accade se chi sta in carcere viene informato sul fatto che ci sono le elezioni al parlamento di Strasburgo e se si guarda all'Europa come dimensione politica, come spazio giuridico. Perché in Italia il diritto viene assicurato non tanto dalla dal potere nazionale, ma sempre di più dal diritto internazionale. A proposito di carceri, ad esempio, l'ergastolo ostativo (cioè il fine pena mai) è stato superato dalla Corte di Strasburgo, una corte sovranazionale. Quindi se un detenuto, chiuso nel buio di una cella, venisse informato che da lì arriva il lume della speranza del cambiamento, allora ecco che quel detenuto forse dice: "Io voglio votare a queste elezioni". Basti pensare che il Manifesto degli Stati Uniti d'Europa, dell'Europa federale, noto anche come il manifesto di Ventotene, è stato concepito da tre carcerati che durante il fascismo erano detenuti a Ventotene e lì hanno detto basta alla guerra e sì alla pace. Hanno deciso di creare un'Europa dove chi comanda non siano le istituzioni nazionali ma degli organismi sovranazionali, come il Parlamento europeo, a tutela dei diritti fondamentali. Da quel luogo è venuta questa visione, necessaria contro la violenza e la guerra nel nostro continente.

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