“Mi rivolgo all'Esecutivo, ai Ministri presenti ed in particolare alla ministro Boschi: andate avanti. È un'impresa sempre più difficile, perché più fate e farete bene e più troverete ostacoli. In fondo bisogna capirli. Come fanno a digerire il fatto che Renzi sta riuscendo a cambiare il Paese quando qui nessuno in venti anni ci è riuscito? Andate avanti. Occorre farlo per cambiare davvero questo Paese”. Basterebbero queste parole per liquidare mesi e mesi di retroscena, ettolitri di inchiostro sul ruolo dei verdiniani a Palazzo Madama, decine e decine di ore di talk show sulle insidie al Senato per la maggioranza che sostiene il Governo Renzi. C'è l'amico Denis al Senato, il discorso è chiuso.
A inneggiare all'operato del Governo è Manuela Repetti, compagna di Sandro Bondi e senatrice del gruppo Ala, eletta nelle fila del Popolo della Libertà, poi rimasta in Forza Italia e infine arruolata assieme all'ex fedelissimo di Berlusconi nel gruppo che fa riferimento a Verdini.
La cui strategia, però, non contempera un ingresso diretto in maggioranza, né una trasformazione in Ala nella componente più renziana fra i renziani, ma semplicemente “il superamento di quella politica della contrapposizione tout court che ha prodotto un danno incalcolabile al nostro Paese”, attraverso il confronto “senza pregiudizi nel merito dei provvedimenti, votando ciò che riterrà utile al Paese”. Una tesi che permette all’ex fedelissimo del Cavaliere di trincerarsi dietro il formalismo: “Non abbiamo votato la fiducia, ma solo il no alla sfiducia, quindi non siamo entrati in maggioranza”.
Insomma, un "ingresso di fatto in maggioranza" (con tanto di posticini nelle Commissioni), come ripetono un po' tutti? Forse solo questo, vedremo se e come ci sarà il rimpasto, sicuramente non una novità in senso assoluto. Del resto, in pochi anche all'interno del Partito Democratico storcevano il naso quando Verdini appoggiava il Governo Letta e i ministri espressione del suo partito di allora. E, come ripetono i renziani, non è proprio colpa di Renzi la situazione determinatasi al Senato ha reso Verdini e i suoi "potenzialmente determinanti". Che poi Verdini non fosse uno statista, concludono dalla maggioranza, lo si sapeva anche quando sosteneva l'insediamento di Letta, la rielezione di Napolitano, la scelta di Mattarella e via discorrendo. Che la minoranza PD se ne accorga solo ora, francamente, è piuttosto singolare e sa tanto di scelta pretestuosa.
Il senatore toscano, che vanta numeri da capogiro in Senato (penultimo per numero di presenze, 319esimo per produttività, a bilancio la bellezza di 1 interrogazione e 4 emendamenti presentati in quasi 3 anni), è una sorta di paracadute per il Governo, certo, ma anche per tutti quelli che guardano con terrore all'ipotesi di un ritorno alle urne. Tra questi i forzisti, relegati intorno al 10% dagli ultimi sondaggi, i leghisti, ancora alle prese con la ristrutturazione del partito, gli "autonomisti" alle prese con il rebus della rielezione.
Ma Verdini è tutto sommato "utile" anche alla stessa minoranza PD, che ha un nuovo "nemico pubblico numero uno" che le consente di non affrontare le tante contraddizioni irrisolte della propria funzione all'interno del partito. Insomma, "l'amico Denis", indagini e procedimenti giudiziari inclusi, fa comodo un po' a tutti. Soprattutto nella sua nuova veste di stampella renziana, più che in quella di regista occulto del fu patto del Nazareno.
Perché che ci sia affinità e convergenza fra Renzi e Verdini, è un dato di fatto. Il punto è capire la centralità che ha la riforma della Costituzione nel progetto renziano. Obiettivo cui Renzi ha addirittura subordinato la propria permanenza sulla scena politica e che rappresenta, a ragione o a torto, il fulcro della sua azione di Governo. Verdini, votando le riforme, è già profondamente renziano, in questo senso.