"Berlinguer non ha il vino della sua Sardegna con cui alzare il bicchiere. È un comunista, non ha voglia di divertimenti e di festicciole. Sta con i lavoratori e con le loro donne, incalzati dalla disoccupazione e dalla miseria. L'Italia, del resto, è già divisa così: tra coloro che osano fare ancora brindisi e coloro che non sanno più essere felici finché c'è in giro tanta disperazione". Non è facile, per chi ha poco più di trent'anni, parlare di Enrico Berlinguer, che ci ha lasciato esattamente trent'anni fa, strappato ai suoi compagni da una emorragia cerebrale, conseguenza dell'ictus che lo aveva colto durante un comizio di Padova. Non è facile perché ogni ritratto di questo tipo rischia di risultare impreciso, insufficiente, vuoto in ultima istanza. Non è facile perché ogni ricostruzione ha sempre il sapore dell'agiografia, dell'omaggio o, all'opposto, quello della blasfemia e dell'oltraggio, operati in nome di una presunta superiorità morale / intellettuale garantita dalla distanza storica e dal "distacco ideologico". Non è facile raccontare Berlinguer a chi trent'anni non li ha ancora e della politica ha conosciuto solo le miserie, la bassezza, l'inettitudine.
Per questo non puoi che restituire frammenti, istantanee, pensieri sparsi, appoggiandoti alle parole, ai giudizi, ai ricordi di "altri", di coloro che meglio hanno compreso chi era Berlinguer e cosa ha rappresentato per milioni di italiani. Le parole di Fortebraccio, ad esempio, rendono perfettamente l'idea di cosa si intendesse per "Berlinguer è una persona seria", frase entrata nell'immaginario collettivo e parte essenziale della mitopoiesi berlingueriana. Una persona seria, un politico nel senso più alto del termine: "Non politicastro; e neppure politicone; tanto meno politicante; ma persona capace di vivere la politica nella sua accezione più alta, nel significato originario, di organizzazione delle energie degli uomini, di scienza dello Stato, di governo della società".
Una persona seria. E un comunista, "questione" che si tende spesso a dimenticare (al di là delle vere e proprie appropriazioni indebite). Perché dire "Berlinguer è di tutti" è senza dubbio indice di superficialità, di una decontestualizzazione forzata, nell'ottica di un ecumenismo che appartiene solo al nostro mondo e che non rende giustizia al leader del Pci (il quale certamente non merita ipocrite beatificazioni). Berlinguer era comunista e ha vissuto per la trasformazione secondo giustizia della società, nell'orizzonte della solidarietà, dell'uguaglianza, della democrazia, dell'equità. E l'umanità, la sensibilità, l'empatia erano sì il suo modo di intendere la pratica politica ed il rapporto con i cittadini, ma anche la sua declinazione dell'ideologia comunista. Quella che lo portava a "sentire" le angosce, le preoccupazioni, i tormenti dei deboli, degli esclusi, fino a non riuscire ad essere felice, ad "aggirarsi perennemente insoddisfatto" come se mancasse sempre qualcosa. Quella che lo portava a riflettere sul senso e sull'attualità della lotta di classe, non come mero residuato di un passato lontano, ma come strumento essenziale di contrasto alla disuguaglianza e all'iniquità della società. Ed era il suo modo peculiare di essere comunista che lo portava all'apertura ai cambiamenti della società ed al "disperato bisogno" di dare un orizzonte concreto, non solo ideale, al suo partito.
Berlinguer era l'uomo della smisurata ambizione, non quello delle battaglie perse in partenza o del moralismo intransigente e bacchettone. L’ambizione, come scrive Tronti, cioè di "mettere in campo un progetto in grado di parlare a tutti e di convincere la maggioranza del paese; l’ambizione di far coincidere la promozione delle masse popolari con un migliore avvenire per l’insieme della società e per l’Italia". L'ambizione di poter cambiare le cose, qui ed ora, nella dignità del compromesso certo, ma senza paura del confronto e dello scontro, senza la paura del cambiamento. L'ambizione di poter costruire un'alternativa possibile, malgrado le tentazioni autoritarie, il caos costruito a tavolino, le mille contraddizioni dei suoi interlocutori, la follia della lotta armata, la deriva lenta e costante della dignità della politica italiana (basterebbe leggere le celeberrime parole sullo "stato" dei partiti italiani, senza che sia possibile dimenticare alcuni aspetti della gestione interna dello stesso Pci, ovviamente).
Una determinazione, quella di ampliare il consenso e di convincere ogni italiano della fondatezza dei propri ideali, che avrebbe guidato ogni sua scelta e che non lo avrebbe mai abbandonato. Fino all'ultimo, fino al comizio di Padova e alle parole prima del malore: "Compagni, lavorate tutti, cantiere per cantiere, strada per strada, dialogando". Il lascito più grande, quello della forza delle proprie idee, della fiducia nella propria comunità e della voglia di costruire un percorso inclusivo, sempre orientato al bene comune, nella consapevolezza che questo, davvero, non è il migliore dei mondi possibile.
Certo, ci sarebbe tanto da dire, da scrivere, da riportare, da precisare, da correggere ed interpretare. E in ogni caso ci sfuggirebbe qualcosa. E così forse la cosa migliore è quella di prendere in prestito le parole sempre di Mario Tronti, nel libro "Il principe disarmato": "È difficile parlare di Berlinguer, senza nostalgia. Sì, lo so, c’è il pericolo di idealizzare il personaggio, di immaginare l’isola che non c’è, di vedere solo luci senza ombre. Ma è un peccato veniale che ci deve essere concesso".