"Adesso tocca a noi. Gli italiani ci hanno chiesto di far correre il Paese. Ci hanno chiesto di cambiare il gruppo dirigente della sinistra italiana. È arrivato il momento di scrivere la nostra storia". In quattro frasi Matteo Renzi riassume l'intero senso della giornata di ieri, mettendo in ordine i pensieri e chiarendo, a se stesso e agli altri, che il percorso che si prospetta non sarà affatto semplice. Perché il voto, anzi il plebiscito per Renzi testimonia che il Partito Democratico non solo è contendibile, ma anche che si affida ad un'altra generazione, lontana anni luce dalla precedente per formazione culturale, collocazione ideologica, aspirazioni ed obiettivi. È un voto che porta in se il retaggio di una questione generazionale mai completamente affrontata, tanto nel partito (che ha preferito cooptazioni e foglie di fico) quanto nel Paese (e troppo si è detto a vuoto sulla questione della "prima generazione che ha meno della precedente"…). Un ricambio generazionale che non può, non avrebbe potuto, essere un mero svecchiamento in senso anagrafico, ma che porta necessariamente con se un cambiamento di paradigma e (si spera) un cambio di marcia nei modi e nelle forme della pratica politica (e della comunicazione, ma questo è scontato).
Ma che soprattutto è legittimato dal voto degli elettori, tanto dei militanti storici quanto dei "simpatizzanti" (su questa categoria poi sarebbe opportuno riflettere, magari considerando che se un partito non guarda "oltre" gli iscritti, magari quelli "certificati", evidentemente non ha ben chiara la propria missione e funzione). E la legittimazione arriva per "cambiare verso alle cose", per tracciare un solco col passato e spiegare finalmente ai dirigenti che hanno portato il Pd al punto più basso della loro storia un concetto semplicissimo: le carriere politiche non sono eterne, si può accettare una sconfitta, ammettere le proprie responsabilità e farsi da parte. Non è un dramma. E spesso può far bene al Partito e al Paese.
Un partito che, parliamoci chiaramente, vive una fase drammatica, dopo lo shock del risultato elettorale, la rinuncia al Governo del cambiamento, il "pomeriggio dei 101" che hanno affossato il totem Prodi, la rielezione di Napolitano, l'umiliazione delle larghe intese e i bocconi amari dei casi Shalabayeva, F35, Cancellieri, Imu eccetera. Ma che allo stesso tempo tiene laddove più conta: sui territori, nei circoli, nelle amministrazioni locali. E che conserva un forte spirito comunitario, di appartenenza e vicinanza. Uno spirito certo provato, ma ancora vivo e vitale, come testimoniano i quasi 3 milioni di votanti delle primarie: una cifra pazzesca, considerando il particolare momento della politica, l'assenza di una competizione elettorale a breve scadenza e anche la quasi certezza del risultato finale. Ma soprattutto una cifra che testimonia una volta di più che il Partito Democratico, con tutti i difetti e le storture, non ha "rivali" nella pratica democratica e nell'utilizzo dello strumento delle primarie, che resta una modalità di partecipazione apprezzata e incidente (al netto di una riflessione seria sul "rischio svuotamento").
E quella che Renzi chiama "la nostra storia" non può che partirà da qui. Dal popolo che ha affollato i gazebo ed i seggi e che chiede sostanzialmente che siano restituiti al più grande partito della sinistra italiana la dignità e l'orgoglio. Solo qualche mese fa del resto la critica che Renzi imputava al gruppo dirigente piddino era quella di aver mortificato l'orgoglio dei democratici, "nel loro senso di appartenenza, nel loro sentirsi “diversi” e sempre e comunque portatori di buona politica. Sentimenti affievolitisi nel tempo, fino a sparire quasi del tutto di fronte alla carica ed all'entusiasmo dei grillini e certamente non risvegliati dalla condotta di Bersani, Letta ed Epifani nei giorni del disperato tentativo di ottenere un via libera per la formazione del nuovo governo" e in quelli successivi, con l'opzione larghe intese e i troppi compromessi sull'altare della stabilità eretto in nome del dio della responsabilità. Il Sindaco di Firenze, prima ancora dei giochetti con Enrico Letta, delle strategie per il cambiamento della legge elettorale, della ricomposizione dei rapporti di forza / alleanza interni a partito e centrosinistra, prima ancora della piattaforma di governo, del programma, delle ricette per il Paese (che servono, figuriamoci, ma che non possono che rispondere ad un progetto più ampio), è chiamato ad un passaggio storico per i suoi militanti: restituire loro l'orgoglio dell'appartenenza, la dignità della proposta politica e la speranza nella possibilità di guidare il cambiamento del Paese. E non è poco, anzi.