All’indomani dell’annuncio della proroga dello stato di emergenza in Francia, conseguenza degli attentati terroristici di Parigi, Liberation pubblicava un editoriale che è un manifesto di razionalità: “Siamo in un conflitto nel quale la continuazione della vita quotidiana, il mantenimento delle garanzie di diritto, il rifiuto di mostrare la propria paura, peraltro pienamente legittima, formano una componente decisiva dell’arsenale morale della società. […] Sono le democrazie ad aver vinto le guerre, come quelle contro le grandi tirannie del ventesimo secolo, in cui le dittature hanno perso la partita. La libertà non è una debolezza, anzi è proprio la libertà a sostenere il coraggio dei popoli. […] Le misure eccezionali di cui si parla sono conformi ai nostri princìpi? Per battersi ci vuole un ideale. Cominciare con l’intaccarlo significa indebolirsi già dall’inizio”.
Parole che affrontavano l’eterno dualismo fra libertà e sicurezza in un momento in cui la discussione razionale aveva giocoforza lasciato campo all’approccio emozionale, o, nel peggiore dei casi, alla reazione istintiva. Quello francese è stato un caso di specie, con un dibattito che ancora non si è concluso e ripercussioni chiare sugli equilibri politici del paese e probabilmente dell'intero Continente. Il punto è che la sicurezza è diventato uno dei maggiori indicatori della qualità della vita, un valore irrinunciabile, che ha finito con il sovrapporsi o quasi a tutti gli altri "indici" dell'esistenza individuale.
La questione è complessa e molto dibattute sono le responsabilità (l'allarmismo dei media, le strumentalizzazioni delle forze politiche, le scelte dei "poteri forti", la destrutturazione culturale, la crisi economica, la fine delle ideologie e via discorrendo), certo è che l'emergere del "problema sicurezza" ha cambiato radicalmente la politica europea, dando probabilmente il colpo di grazia alla socialdemocrazia e al pensiero progressista.
Semplificando, potremmo dire che le parole del nostro ministro dell'Interno, Marco Minniti, sulla sicurezza come valore di sinistra (o peggio ancora sulla sicurezza come precondizione della "libertà"), raffigurano perfettamente il baratro in cui è precipitato il pensiero socialdemocratico e progressista, oltre che la versione in salsa populista del goffo tentativo dei partiti "di sinistra" di inseguire la destra. Fin qui, comunque, niente di drammatico: non sarebbe il primo caso in cui la sinistra segue la corrente, piuttosto che cominciare a remare. Il problema è costituito dalle implicazioni concrete di un approccio del genere. L'Italia non è come la Francia dello stato di emergenza, né come il Regno Unito al tempo della May, né come la Russia di Putin, certo. Ma è un paese in cui la politica continua a inseguire il fantasma del "consenso popolare", muovendosi senza bussola ideologica, cercando semplicemente di compiacere la pancia dei cittadini / elettori.
Il decreto sicurezza urbana, il decoro, la criminalizzazione dell'emarginazione
Il Parlamento italiano ha dato il via libera a un decreto che recepisce proprio questo indirizzo. Si dirà: che problema c'è nel considerare la sicurezza dei cittadini come valore primario, come precondizione dei rapporti sociali e compito fondamentale dello Stato? Ed è sostanzialmente questa la risposta fornita dalla maggioranza alle obiezioni mosse al decreto sicurezza "da sinistra", quasi a voler riportare nei binari dell'ordinaria amministrazione delle scelte che invece rispondono esclusivamente a logiche emergenziali. Peraltro in assenza dell'emergenza.
Non si tratta di "cacciare" uno spacciatore dalle vicinanze di una scuola (che poi, il DASPO urbano sarebbe la soluzione?), né di dare ai Sindaci nuovi poteri (perché mai, poi?), né di farsi andar bene il degrado delle periferie e via discorrendo. Il punto è che la ratio del decreto e, in generale, il modo in cui si muove la politica sul tema sicurezza, partono da falsi problemi per giustificare una emergenza costruita a tavolino, inseguendo l'idea di una sicurezza illusoria, di facciata, artefatta. E non si pongono il problema delle conseguenze di un simile approccio, che lega appunto decoro e sicurezza, che sono quelle di individuare nei soggetti emarginati, drogati, barboni, migranti, rom, dei pericoli per la nostra sicurezza. E, non in subordine, quelle di restituire l'idea di uno stato di assedio, di un vivere civile perennemente minacciato dai barbari, di una società costantemente in pericolo.
Di fatto, un clima del genere crea barriere ulteriori, nuovi steccati e restituisce l'immagine di vite eternamente sotto pressione, continuamente minacciate, "parcellizzando la dimensione del pericolo" e legandola al decoro, alla "decenza", troppo spesso all'immagine esteriore (qui abbiamo provato a parlarvene con più calma). I fatti di Roma, di Napoli, di Torino e ancora di Roma, benché diversissimi tra loro, sono legati da un filo comune, che è appunto questa malintesa concezione di sicurezza, il legame col decoro, l'ansia con la quale si rincorre questo "bisogno indotto" di tranquillità, di stabilità, l'idea che ogni contestazione sia una minaccia, che ogni attività "fuori dal coro" sia un potenziale pericolo. L'illusione della sicurezza genera mostri, appunto.
C'è un clima di tensione nel Paese, che andrebbe stemperato, o almeno compreso nelle sue ragioni profonde. Un alcolizzato, un tossicodipendente, una prostituta, un mendicante, un clochard non dovrebbero essere un problema di decoro, una minaccia alla sicurezza, ma "fragilità da assistere", soggetti da reinserire, da includere. Così come il dissenso non dovrebbe essere affrontato col manganello, ma trattato come parte essenziale di una società viva, pulsante.