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Un anno dopo il naufragio di Cutro: ecco tutti i fallimenti di Meloni e del suo decreto

Un anno dopo il terribile naufragio di Cutro, tiriamo le somme sul decreto messo in campo dal governo Meloni: un provvedimento che aveva come obiettivo quello di governare i flussi migratori e che ha modificato la normativa dalla prima accoglienza ai centri per il rimpatrio, dalle procedure accelerate ai canali regolari, fino all’introduzione di un nuovo reato.
A cura di Redazione
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di Marco Billeci e Annalisa Girardi

È passato un anno dal naufragio di Steccato Cutro. Una tragedia costata la vita ad almeno 94 persone, tra cui decine di bambini, morte a pochi metri dalle coste italiane. Qualche giorno dopo, quando ancora il mare non aveva terminato di restituire i corpi dei migranti, il governo di Giorgia Meloni organizzava un Consiglio dei ministri nel paesino calabrese e varava un decreto per punire più duramente gli scafisti e governare i flussi migratori.

A un anno di distanza da quegli eventi, abbiamo analizzato i principali punti toccati dal decreto, intervistando esperti e chiedendone conto a ministeri ed enti locali. Ne emerge un quadro chiaro, confermato anche dai numeri record che sono stati registrati nel 2023: le misure volute da Giorgia Meloni e dal suo governo non hanno davvero affrontato il fenomeno alla radice, finendo solo per inasprire alcune norme per pure ragioni di consenso politico, senza riuscire davvero a controllare più serratamente i flussi.

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La prima accoglienza e i Centri per il rimpatrio

Il decreto Cutro doveva servire, tra le altre cose, a potenziare la rete dei Centri di permanenza per i rimpatri (Cpr), portando il numero dai dieci attuali a venti, uno per regione. Il decreto definiva procedure straordinarie e accelerate per la costruzione dei nuovi Cpr. A oggi, tuttavia, non esiste ancora nemmeno una lista dei luoghi dove realizzare le nuove strutture, destinate agli stranieri da espellere dall'Italia.

A settembre 2023, il governo ha affidato al ministero della Difesa il compito di individuare i criteri e le aree, per far sorgere i centri. Subito però molte regioni – anche governate dal centrodestra – si sono opposte all'ipotesi di ospitare un Cpr sul proprio territorio. E della disposizione si sono perse le tracce. A quanto risulta a Fanpage.it, la questione non al momento all'ordine del giorno della Conferenza Stato-Regioni. E difficilmente lo sarà a breve, perché ancora manca un istruttoria politica e tecnica compiuta, necessaria a sciogliere un nodo così delicato.

Nel frattempo, il decreto Cutro ha cambiato alcune regole sulla prima accoglienza. “C'è stato un evidente indebolimento nel sistema, siamo sempre meno in grado di dare un aiuto a chi ha bisogno”, dice a Fanpage.it Matteo Biffoni, sindaco di Prato e delegato Anci all'immigrazione. Nel percorso parlamentare del decreto, è stata inserita una norma che toglie ai richiedenti asilo la possibilità di accedere al sistema Sai, quello dell'accoglienza diffusa. Per le loro caratteristiche, con piccoli nuclei di migranti ospitati nei diversi Comuni italiani, i progetti Sai si sono dimostrati quelli più consoni a garantire un'integrazione efficace.  I numeri della rete Sai sono in crescita. Ma per paradosso, quando nell'estate 2023 c'è stato il boom degli arrivi, diversi posti nel sistema dell'accoglienza diffusa sono rimasti vuoti, mentre si faticava a trovare una sistemazione per i richiedenti asilo, esclusi dal Sai.

Per i centri di prima accoglienza, invece, il decreto Cutro ha previsto un taglio dei fondi e dei servizi offerti. Il sindaco Biffoni spiega: "questo è un altro punto debole.  Eliminare l'insegnamento dell'italiano o l'assistenza legale, che erano capisaldi del sistema, è sintomo di un approccio esclusivamente alberghiero”. Ritenendo così impossibile garantire una giusta accoglienza, i soggetti più qualificati  per gestire i centri  – da Caritas ad Arci, fino a Sant'Egidio – hanno spesso rifiutato di partecipare ai bandi, che in più occasioni sono finiti deserti.

Sono stati anche questi interventi a generare  il caos sul territorio a cui abbiamo assistito l'estate scorsa, durante il picco degli arrivi. "I numeri di questo inizio del 2024 sono abbastanza contenuti – dice Biffoni -, ma se nei mesi più caldi ripartissero gli sbarchi, il sistema di prima accoglienza tornerebbe in grossa difficoltà".  Prosegue il delegato Anci per l'immigrazione: "Questo governo è già intervenuto quattro volte sulle regole dell'accoglienza, creando ulteriore confusione". E conclude: "Qua non basta mettere toppe su questo o quel punto, come hanno fatto anche gli altri esecutivi prima di quello Meloni. Bisognerebbe avere il coraggio di ripartire da capo e ridefinire tutto il sistema".

Le procedure accelerate

Un aspetto importante e critico su cui agisce il decreto Cutro è quello delle procedure accelerate di frontiera. "In realtà una procedura di frontiera era già stata introdotta da Salvini, Piantedosi ha introdotto una nuova ipotesi che si applica a richiedenti asilo provenienti da Paesi di origine sicura e l'ha legata al trattenimento di chi fa la domanda. L'unico modo per evitare il trattenimento è avere un passaporto o depositare una garanzia finanziaria di 5mila euro", spiega a Fanpage.it Thomas Santangelo, socio di Asgi, l'Associazione per gli studi giuridici sull'immigrazione.

In pratica, per un richiedente asilo proveniente da un Paese considerato sicuro, è possibile esaminare in forma accelerata la sua domanda di protezione internazionale, prevedendo che nel frattempo questa persona venga trattenuta. Cioè privata della sua libertà personale. Si tratta di una misura che ha fatto particolarmente discutere, in quanto la detenzione amministrativa dovrebbe sempre essere l'ultima istanza a disposizione. Il dibattito non è solo politico, ma in primis giuridico. Soprattutto visto quanto accaduto a Catania, dove il Tribunale non ha applicato quanto previsto dal decreto Cutro per tre richiedenti tunisini.

"Il tribunale di Catania, ha stabilito che il trattenimento fosse illegittimo perché contrario alla direttiva 33 del 2013, secondo cui il richiedente asilo non può essere trattenuto al solo scopo di esaminare la domanda. In realtà quella direttiva prevede delle ipotesi per cui il richiedente possa essere trattenuto con lo scopo di verificare se può entrare nel territorio nazionale, ma è una questione molto ambigua e lo Stato membro deve valutare le misure alternative, in quanto il trattenimento deve rappresentare l'estrema ratio. Il problema è che in Italia questo è un automatismo, quasi un obbligo: o si entra con il passaporto, o si paga, altrimenti si viene trattenuti", spiega Santangelo.

Per poi ricordare: "Dopo che il tribunale di Catania non ha convalidato i trattenimenti, l'Avvocatura dello Stato ha impugnato a sua volta i provvedimenti, rimettendo la questione alle Sezione Unite della Cassazione. Lo scorso 30 gennaio 2024 si è tenuta l'udienza, ma la Cassazione per ora ha rimesso l'intera questione alla Corte di giustizia dell'Unione europea. Per ora quindi l'impianto di trattenimento per le procedure accelerate nei confronti dei richiedenti che provengono da Paesi sicuri è sospeso".

La questione del trattenimento, ad ogni modo, non è l'unico punto critico per quanto riguarda la norma sulle procedure accelerate. Ce n'è un altro, a monte: è quello dei Paesi sicuri. "Con il decreto del 17 marzo 2023 nell'elenco dei Paesi sicuri sono stati inseriti anche Paesi come la Costa d'Avorio e la Nigeria: nessun altro Paese europeo li inserisce in questa lista, la Costa d'Avorio è presente solo nella lista italiana, la Nigeria solo nella nostra e in quella di Cipro – afferma Santangelo – Come Asgi abbiamo chiesto un accesso civico per avere le schede di questi Paesi e capire che istruttoria avesse messo in campo il ministero per giustificare l'inserimento di alcuni Paesi".

L'operatore legale si concentra poi sul caso della Tunisia, inserita appunto dal ministero degli Esteri nell'elenco dei Paesi sicuri: "È curioso però notare che lo scorso ottobre una pronuncia del tribunale di Firenze rispetto al ricorso di un richiedente tunisino ha evidenziato come le condizioni in quel Paese – condizioni elencate appunto nella scheda – non fossero più veritiere. Il tribunale di Firenze aveva citato anche l'Agenzia Onu per i rifugiati, per motivare la sua pronuncia: soggetti come l'Unhcr, tra l'altro, dovrebbero essere proprio le fonti per gli Stati membri nella compilazione delle schede, che fanno i dipartimenti del ministero".

Ci sono molti aspetti poco chiari di come vengano redatte queste schede: "A volte vengono escluse intere categorie di persone, per cui il concetto di Paese sicuro non si applica: ad esempio per la comunità Lgbtq+ si dice che i Paesi magrebini non sono sicuri. O ancora, in Nigeria ci sono tantissime categorie di persone o zone del territorio per cui non si applica il concetto di Paese sicuro: verrebbe da chiedersi quindi sulla base di cosa quel Paese sia considerato sicuro. Sono convinto che queste schede vengono fatte sulla base degli accordi con i Paesi per facilitare i rimpatri, che comunque sappiamo essere complicatissimi".

Secondo Santangelo, questo impianto normativo non è altro che un anticipo di quello che imporrà poi la Commissione europea. "Nel patto sull'asilo del 2020 era in cantiere una proposta di stravolgimento del sistema, che ad aprile dovrebbe essere approvata in via definitiva: in questa riforma c'è anche il regolamento sulle procedure – quindi direttamente applicabile negli Stati membri – il cui punto fondamentale è quello delle procedure di frontiere accelerate per gli Stati costieri, con detenzione che si potrà protrarre fino a 12 settimane. L'Italia ha accennato quello che probabilmente sarà lo scenario futuro. La procedura di frontiera sarà il principio cardine del nuovo sistema d'asilo", ha concluso.

I flussi legali e la formazione nei Paesi di origine

Il decreto Cutro ha introdotto diverse novità anche nella gestione dei flussi legali d'ingresso dei migranti, per motivi di lavoro. Tra queste, particolarmente rilevante è la possibilità di far arrivare in Italia, al di fuori dalle quote previste dal cosiddetto decreto flussi, stranieri che abbiano completato percorsi di formazione professionale e civico-linguistica nei Paesi d'origine o di transito. I programmi possono essere proposti da diversi soggetti, da soli o in gruppo: dalle organizzazioni dei datori di lavoro a regioni ed enti locali, dalle associazioni del terzo settore a università e istituti di ricerca etc… A vagliarne l'ammissibilità è una commissione interministeriale, con al vetrice il ministero del Lavoro. Entro sei mesi dal termine del corso, chi ha partecipato può presentare una domanda per un visto di ingresso, unita a un documento che attesti la disponibilità ad assumere da parte del datore di lavoro.

L'innovazione è considerata positiva dalle aziende e dalle imprese, soprattutto per la possibilità di agire al di fuori delle stringenti quote, del decreto flussi ordinario. L'inizio però è stato lento, a giudicare dai dati forniti a Fanpage.it dallo stesso ministero del Lavoro. Dopo l'approvazione del decreto Cutro, ancora nessun lavoratore straniero è arrivato nel Paese, dopo aver seguito un corso di formazione, certificato dalla commissione. I programmi che hanno ottenuto l'approvazione sono  solo due. Il primo è  il progetto "Académie Internationale de la Construction", per la Tunisia, con l'Ance come capofila. Il corso si è concluso il 22 febbraio scorso e ha coinvolto 40 persone.  Il secondo progetto che ha avuto il via libera deve ancora iniziare. Si chiama "Academy Albania", è rivolto a quaranta destinatari albanesi ed è stato  proposto da Cesf (Centro Edile per la Sicurezza e la Formazione).

Il decreto prevede anche la possibilità per il governo di stipulare accordi con organizzazioni internazionali o con soggetti che operano nel campo della formazione e dei servizi per il lavoro nei Paesi terzi, per promuovere questo tipo di percorsi. L'unica intesa di questo tipo al momento è quella firmata il 20 ottobre scorso con la Tunisia, che autorizza annualmente l’ingresso nel nostro Paese di 4mila lavoratori subordinati, non stagionali. Perché dalla carta si passi ai fatti, tuttavia, manca ancora la sottoscrizione del protocollo tra l'Anpal e l'omologa agenzia per il lavoro tunisina,  per individuare i settori, le competenze e le procedure d'incontro tra  domanda e offerta.

Mentre il sistema prova a mettersi in moto, c'è chi un progetto in questo senso lo aveva avviato, già prima delle innovazioni introdotte dal Dl Cutro.  Da più di un anno, Confindustria Alto Adriatico (che riunisce le imprese delle province di Trieste, Gorizia e Pordenone)  lavora a un programma per la formazione di diverse figure professionali in Ghana, da portare nelle industrie del territorio. I corsi inizieranno a fine marzo e coinvolgeranno inizialmente più di un centinaio di soggetti, con l'obiettivo di arrivare a regime a 400-500 persone per ciclo. I destinatari sono studenti di scuole gestite dai Salesiani, ad Accra e in altre quattro città del Paese. A questi verranno offerti corsi di formazione professionale, di lingua italiana e di sicurezza sul lavoro. Il traguardo finale è creare un Istituto Tecnico Superiore, nella capitale ghanese.

"Si tratta di un progetto pilota in Africa – dice a Fanpage.it il presidente di Confindustria Alto Adriatico Michelangelo Agrusti -. Non ho notizia di altre iniziative simili, in uno stadio così avanzato". Agrusti spiega che la scelta è caduta sul Ghana, perché, fin dagli anni '90, nelle province del Friuli Venezia Giulia  si registra la presenza di una grande comunità ghanese, ben integrata. "Ritengo che l'esperienza sia replicabile in altri Paesi", aggiunge il presidente dell'associazione degli industriali. Secondo Argusti, un canale d'accesso di questo tipo è preferibile rispetto a quelli dei decreti flussi ordinari: "Le imprese ci dicono esattamente di quali ruoli hanno bisogno e noi facciamo una formazione sartoriale, perché ad esempio, non basta dire ‘servono dieci saldatori', i saldatori non sono tutti uguali".

In questo modo, al termine del percorso, le persone arriveranno in Italia "con un contratto di lavoro, conoscendo l'italiano e sapendo in che azienda andranno a lavorare, già pronti per iniziare. Il datore di lavoro si impegna anche a trovare un alloggio". Recentemente il presidente di Confindustria Alto Adriatico ha avuto contatti con il ministero del Lavoro e dell'Istruzione, serviti soprattutto per raccontare il progetto e trasmettere alle strutture pubbliche il know how acquisito in questi mesi sul campo.  Perché, sottolinea Argusti: "Noi abbiamo fatto tutto per conto nostro, ci siamo inventati un percorso, studiando alcune esperienze esistenti altrove e aggiungendo un po' di genio italico". 

Il nuovo reato

Il decreto Cutro crea anche una nuova fattispecie di reato, cioè quello di "Morte o lesioni come conseguenza di delitti in materia di immigrazione clandestina". Nella conferenza stampa seguita al Cdm nella cittadina calabrese, Giorgia Meloni prometteva che il governo avrebbe cercato i trafficanti di uomini "in tutto il globo terracqueo" e che avrebbe punito a dovere gli scafisti. Ma questo nuovo reato "è un reato che non serve a nulla se non a dare un messaggio all'opinione pubblica e a irrigidire i meccanismi", spiega a Fanpage.it Luca Masera, professore ordinario di diritto penale all'Università degli Studi di Brescia. "Nel caso di Cutro – prosegue l'esperto -il soggetto individuato come scafista è stato condannato a 20 anni di reclusione: è una pena enorme e sproporzionata, considerando che questo soggetto non aveva nulla a che fare con le bande criminali che avevano organizzato il viaggio, ma era solo una persona a cui era stato in messo in mano il timone".

La pena, basata sulla normativa precedente all'approvazione del decreto, è già altissima: "Già prima del decreto, la morte come conseguenza di fatti di questo tipo era punibile con pene fino a 30 anni, che è il massimo della pena. Era già così, quindi quello che è aumentato adesso non è il massimo di pena, ma il minimo: ora la pena minima è di 20 anni ed è una totale follia. Questo significa che il giudice non è più nelle condizioni di distinguere i veri casi gravi, di trafficanti che hanno cagionato la morte mettendo delle persone su barche che non erano in condizioni di navigare, da quelli delle persone che si imbarcano e vengono trovate con il timone in mano", spiega Masera.

Sottolineando che "tutto questo non ha nulla a che vedere con il contrasto ai veri trafficanti, che già prima potevano essere puniti con 20 anni di reclusione". Il professore aggiunge: "Quindi è una norma che ha un effetto sostanzialmente declamatorio, per dare l'idea che prima le pene non ci fossero, che prima ci fosse una lacuna che ora si risolve, ma non è affatto così. Le pene già prima erano sproporzionate, addirittura la Corte costituzionale aveva detto che fossero troppo alte".

Insomma, secondo l'esperto "questo decreto è una rincorsa demagogica al bisogno di punizione, scaricata sui migranti che arrivano" per rispondere al "bisogno di mettere qualcuno in manette, di  mandare qualcuno in carcere, nel momento in cui c'è uno sbarco". I veri responsabili della tratta di esseri umani, però, non ne hanno risentito: "Lo slogan ‘li andremo a prendere per tutto il globo terracquo' non ha il minimo senso, dà l'impressione che l'Italia stia andando a cercare i responsabili della tratta ad esempio in Libia, dove invece i responsabili – che sono gli uomini della Guardia costiera – vengono finanziati dal nostro Paese", evidenzia Masera.

Per poi concludere: "Questo decreto è stato fatto per mere questioni propagandistiche, per dare l'idea che finalmente c'è un governo che fa sul serio, ma le pene erano già altissime. Non si fa altro che scaricare una punizione sugli ultimi".

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