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Tutti i problemi dell’accordo sui migranti tra Italia e Albania, spiegati da Emergency

Abbiamo parlato con Francesca Bocchini, che si occupa di migrazioni all’interno di Emergency, del nuovo protocollo stretto tra Italia e Albania. Ci ha spiegato che l’intesa non solo sia problematica da un punto di vista dei diritti delle persone migranti, ma che non incida in alcun modo nel facilitare le procedure di accoglienza in Italia. Tutto il contrario.
A cura di Annalisa Girardi
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Dopo la stretta di mano tra Giorgia Meloni ed Edi Rama, che ha sancito la creazione di due centri per migranti in Albania, diverse organizzazioni si sono schierate contro il protocollo. Tra queste anche Emergency, che l'ha definito l'ennesimo attacco al diritto all'asilo e un passo ulteriore nel processo di esternalizzazione delle frontiere che sappiamo essere controproducente. Non solo strategie di questo tipo, sottolinea l'associazione umanitaria fondata da Gino Strada, hanno finito per incoraggiare la tratta di esseri umani, ma sono contro ogni logica.

Ne abbiamo parlato con Francesca Bocchini, che si occupa di migrazioni nell'ufficio Advocacy di Emergency e che ha sottolineato come costruire due centri in Albania non migliorerà di una virgola la gestione italiana dell'accoglienza, ma finirà per discriminare i migranti che vi saranno detenuti, procurando uno sforzo economico e logistico non indifferente al nostro Paese.

Emergency ha espresso diverse preoccupazioni sul nuovo protocollo con l'Albania, ce le può spiegare?

Il protocollo è piuttosto vago e crediamo sia così volutamente. Sappiamo che ci saranno degli atti successivi per implementarlo, ma allo stato attuale c'è molta perplessità. Soprattutto sulla possibilità monitorare in un territorio extra Ue la corretta applicazione della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, che dovrebbe valere all'interno dei centri. Così come sulla possibilità di entrare in questi centri, da parte di avvocati e organizzazioni umanitarie – come l'Agenzia europea per l'asilo, Unhcr, Oim – per garantire il rispetto dei diritti in questi centri. Su questo fronte abbiamo molti dubbi. 

Quello definito nel protocollo è un modello problematico, insomma…

Si è parlato dell'affinità con il modello di Regno Unito e Ruanda, ma in realtà quello che stiamo costruendo sembra più simile al modello australiano. Sembrano esserci profili di potenziale illegittimità molto alti: stiamo andando a creare in territorio extra Ue dei centri che sono formalmente territorio italiano, ma di fatto manca l'accesso al territorio dove richiedere la protezione internazionale. Tutto questo ci lascia piuttosto in dubbio rispetto alle modalità con cui verrà garantito il rispetto dei diritti umani e delle corrette procedure. Un'altra cosa che ci sembra poco chiara, dal punto di vista puramente operativo, è quante volte queste persone dovranno fare avanti e indietro dall'Italia? E quante volte i giudici, o comunque il personale competente italiano per le procedure, dovrà fare avanti e indietro?

C'è poi la questione della detenzione amministrativa. Quali sono i rischi a riguardo?

Il tema della detenzione è un tema centrale. Stiamo parlando di centri – e questo è chiaro ed esplicitato nel protocollo – da cui i migranti non potranno uscire. La detenzione dovrebbe essere l'ultima risorsa a disposizione delle autorità nel caso di persone che vogliono richiedere la protezione internazionale e dovrebbe sempre essere giustificata dal provvedimento di un giudice. Ci chiediamo come questo possa essere effettivamente applicabile.

E poi, come intendono fare lo screening delle persone vulnerabili e di chi invece potrà essere mandato nei centri? Come avverrà questo? Un'imbarcazione della Guardia costiera arriverà in Albania, qualcuno farà lo screening e in pochi minuti verrà deciso che gli uomini sopra una certa età non possono essere soggetti vulnerabili? Questo ci preoccupa. Delle procedure veloci e approssimative – in cui conta di più la logistica che il rispetto dei diritti – come possono assicurare un'adeguata protezione a delle persone vulnerabili che non riescono, nel primo contatto con le autorità, ad esprimere la propria vulnerabilità? Chi avrà il compito infausto di decidere chi è vulnerabile e chi no? Non è chiaro quali saranno i criteri secondo cui questo verrà stabilito. Solo quelli di genere e sanitari? Ci sembra contrario a qualsiasi applicazione del diritto internazionale marittimo, perché fino a prova contraria queste persone sono prima naufraghi che migranti e il diritto marittimo è molto chiaro sulle procedure. E poi, in ogni caso, sarà una selezione fatta su persone già vulnerabili di per sé. 

Giorgia Meloni ha parlato di 36 mila persone all'anno, che passeranno per questi centri. Credete che questa cifra potrà incidere nella capacità di accoglienza italiana?

Parliamo di 3 mila persone, con quel turnover preventivato che però sappiamo essere difficilmente praticabile, visti i numeri attuali. Ad ogni modo, davvero crediamo che quei 3 mila posti in più creino delle condizioni diverse da quelle che si sarebbero verificate in Italia? Come al solito si sta parlando di provvedimenti e accordi in modalità "toppa" che non agiscono né sulle cause che spingono le persone a partire, né sulla gestione efficace, sostenibile e strutturata del fenomeno in Italia. Queste cifre non cambieranno le sorti di come gestiamo l'immigrazione. Per farlo bisognerebbe rafforzare le vie di accesso legali e il sistema di asilo: dovrebbero essere queste le priorità del governo, piuttosto che andare a costruire due centri fuori dal proprio territorio pensando che questi possano essere la risoluzione di tutti i problemi dell'accoglienza.

L'accordo rischia di incentivare ulteriormente i flussi illegali?

In tutte le differenze dei casi, questo è un modello che abbiamo già visto. Lo abbiamo visto prima con la Turchia, poi con la Libia e infine con la Tunisia (presto probabilmente lo vedremo anche con l'Egitto): tutti questi accordi non hanno fatto sì che le persone smettessero di partire, anzi. La conseguenza è stata rendere il viaggio verso l'Europa sempre più pericoloso e, dall'altro lato, incentivare il traffico di esseri umani, che si è andato a nutrire della necessità delle persone che cercavano una protezione e sono state poi costrette a trovarla nell'illegalità perché le vie legali sono sempre andate a diminuire. Le conseguenze che noi vediamo sono queste, anche da bordo della nostra nave abbiamo visto imbarcazioni sempre più precarie salpare dalle coste del Nord Africa. Continuiamo a produrre degli accordi che invece di facilitare l'arrivo delle persone che chiedono protezione, allungano il tempo di permanenza nei centri di detenzione, aumentando le sofferenze delle persone migranti, e non fanno nulla per superare le cause che spingono le persone ad abbandonare i loro Paesi di origine. 

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