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Opinioni

Tutte le volte che il governo Meloni ha approvato un decreto legge, per poi cambiare idea

Quasi tutti gli atti approvati dal Parlamento sono conversioni di decreti legge: tra tentativi di comandare e norme illegittime, è difficile non cogliere nella modalità di azione dell’esecutivo la “legalità adulterata” che Calamandrei attribuiva al fascismo.
A cura di Roberta Covelli
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Dopo le dichiarazioni sulla lettera di monito contro il fascismo della preside di un liceo di Firenze ai suoi studenti, il ministro Valditara, ancora una volta, fa retromarcia. Non ha mai prospettato sanzioni contro la dirigente, dice, pur avendo dichiarato (testualmente), "vedremo se sarà necessario prendere misure". Non è la prima volta che il ministro Valditara dichiara e smentisce: era già accaduto per l’umiliazione come "fattore fondamentale di crescita" o con l’idea di gabbie salariali, con stipendi differenziati su base territoriale per gli insegnanti.

Che esponenti politici e membri di governo riformulino le proprie dichiarazioni, lamentando di essere stati fraintesi, è una prassi che certo non è esclusiva della destra. Quel che però preoccupa dell’azione del governo Meloni è che i tentativi di alzare il tiro, su temi identitari, su sistemi repressivi, su usi e abusi del diritto, non avvengano solo con la comunicazione, ma anche con atti aventi forza di legge.

Il potere legislativo non è del governo

In realtà, già che l’azione del governo produca leggi è un problema, anche piuttosto serio. Ormai da anni si assiste di fatto allo spostamento di molte prerogative parlamentari in capo all’esecutivo, sebbene il potere legislativo resti, sulla carta, a Camera e Senato.

La ragione per cui si era prevista questa attribuzione parlamentare è tanto semplice quanto profonda: dal momento che le leggi influiscono sulla vita di tutti, devono essere decise dal Parlamento, ossia l’organo rappresentativo di tutti, della maggioranza come delle minoranze (sempre che la legge elettorale sia ben scritta). Il governo può comunque influire, sia sul processo legislativo ordinario, sia con specifiche modalità di produzione normativa. Da un lato, può far leva sulla maggioranza parlamentare che lo sostiene, ad esempio ponendo la questione di fiducia. Dall’altro, può produrre decreti legislativi e decreti legge. I primi sono atti normativi delegati, cioè è il Parlamento che, specificando i criteri direttivi che devono guidare l’atto, delega il governo a disciplinare nel dettaglio una determinata materia. I decreti legge, invece, sono atti provvisori che l’esecutivo adotta in straordinari casi di necessità e urgenza: pur essendo deliberati soltanto dal governo, i decreti legge sono vigenti fin da subito, ma devono essere convertiti entro sessanta giorni dal Parlamento. Se la conversione non avviene, decadono, cioè perdono efficacia fin dal principio.

Le leggi di questa legislatura sono quasi tutte decreti legge

Dall’inizio della legislatura il Parlamento ha approvato dodici leggi. Una è la legge di Bilancio, di iniziativa governativa, che ha ovviamente richiesto discussioni parlamentari; un’altra è l’istituzione di una commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno del femminicidio ed è l’unica approvazione di una legge di iniziativa parlamentare (PD). Le altre dieci leggi sono invece tutte conversioni di decreti legge.

In diversi casi, poi, il governo ha anche posto la questione di fiducia sui provvedimenti in discussione: è successo in entrambe le Camere per la legge di Bilancio e per il decreto aiuti quater, e a Montecitorio per il decreto rave. Negli ultimi giorni, poi, sono state poste altre questioni di fiducia: sul decreto Ong, sul decreto Carburanti, sul decreto Milleproroghe. In questo modo si è ridotta la dialettica parlamentare, già in parte compressa dall’essere, i provvedimenti in questione, atti governativi.

L’abuso di decretazione d’urgenza e il ricorso alla questione di fiducia sono certo in linea con l’ideologia politica di Giorgia Meloni, del suo partito e della sua coalizione, ma appaiono piuttosto incoerenti se rapportate alle sue vibranti proteste dai banchi dell’opposizione, sui rischi di un parlamento esautorato e ostaggio delle scelte di governo.

L’ampio ricorso a questa eccezione normativa non è certo una novità meloniana, sia chiaro. Ma c’è una caratteristica dei decreti emanati fin qui che rende particolarmente inquietante l’analisi dell’azione legislativa del governo.

Dal reato di rave, ai carburanti, al Superbonus: lancio e dietrofront

I decreti del governo Meloni, nei loro contenuti, sono spesso stati oggetto di critiche e proteste. A cominciare dal primo decreto, che, oltre a modificare l’ergastolo ostativo (in senso opposto a quanto richiesto dalla Corte Costituzionale), introduce nell’ordinamento il delitto di occupazione per raduni musicali, reprimendo i rave non autorizzati con una pena da tre a sei anni (e la confisca obbligatoria delle cose servite per il reato). C’è stato poi il decreto Carburanti, che prevede maggiori poteri di controllo del Garante per la sorveglianza dei prezzi e l’obbligo di esposizione da parte degli esercenti dei prezzi medi. E poi, ancora, il decreto legge con cui il governo ha bloccato la possibilità di sconto in fattura e cessione del credito nell’ambito del Superbonus.

C’è un filo conduttore tra questi provvedimenti, e non è solo la fonte governativa: tutti questi decreti legge hanno visto un confronto serrato solo dopo la loro emanazione. E, di fronte alle proteste più forti, hanno trovato modifiche (o promesse di modifiche) in sede di conversione.

Ora, che un decreto legge possa essere modificato in sede di conversione è nell’ordine delle cose: in quanto atti emanati dall’esecutivo in casi straordinari di necessità e urgenza, i decreti legge disciplinano spesso una realtà che cambia e, nella dialettica parlamentare, si confrontano poi con diverse sensibilità. È curioso, però, che le modifiche arrivino tramite emendamenti governativi, che correggono dei testi che il governo stesso ha scritto. Testi che l’esecutivo dovrebbe ritenere perfetti prima della loro emanazione: non bisogna infatti dimenticare che un decreto legge è immediatamente vigente, ha forza di legge anche prima della sua conversione. Questo significa che i ragionamenti, le critiche, la dialettica, salvo per l’appunto i casi eccezionali d’urgenza, devono svolgersi prima che l’ordinamento accolga una norma sbagliata.

L’impressione che se ne trae è invece che il governo Meloni "ci provi": come in una costante negoziazione al rialzo (o al ribasso, a seconda dei punti di vista), l’esecutivo comanda, o tenta di farlo, salvo ripiegare, almeno comunicativamente, quando il tentativo provoca troppe resistenze.

Le misure contro le Ong

Ma è in materia di Ong e di soccorso in mare che il governo Meloni traduce la sua propaganda elettorale in atti di apparente legalità formale, con una sostanziale violazione dei diritti. Lo si era già visto con il decreto interministeriale che imponeva il cosiddetto "sbarco selettivo" della Humanity2: dopo qualche mese, il Tribunale di Catania ha evidenziato come quell’atto, firmato dai ministri Piantedosi, Salvini e Crosetto, fosse del tutto illegittimo, condannando i dicasteri al pagamento delle spese processuali.

Ora, con il decreto Ong, si osserva una tecnica normativa tanto scaltra quanto crudele: come già con precedenti governi, si utilizzano multe e fermi amministrativi per scoraggiare l’attività di ricerca e soccorso da parte delle navi delle Ong. A guardare le norme, però, ci si accorge di una studiata vaghezza, che esclude l’illegittimità palese rispetto alle convenzioni internazionali ma che, di fatto, pone la burocrazia tra i naufraghi e il loro soccorso: sarà l’autorità amministrativa a prendersi la responsabilità dell’interpretazione del codice di condotta, imponendo fermi e multe che, legittimi o illegittimi che siano, terranno le navi lontane dal Mediterraneo centrale, a prezzo di vite umane.

È difficile allora non cogliere, nell’atteggiamento legislativo di questo governo, quella "legalità adulterata", quella "truffa giuridica organizzata d’autorità" che Piero Calamandrei attribuiva al fascismo. E nella scaltrezza con cui Meloni ha risposto a suo tempo alle critiche contro Donzelli, distinguendo il suo ruolo di partito da quello di governo, risuona proprio quella descrizione che del fascismo offriva l’avvocato antifascista.

Due burocrazie, una di Stato e una di partito, si intrecciano e si compenetrano in questo curioso monstrum costituzionale, il cui carattere più tipico è la doppiezza: non si osa governar senza leggi, ma si istituisce con metodo di governo l’illegalismo autorizzato a farsi beffa delle leggi.

Oggi non ci troviamo in una dittatura, ma possiamo comunque notare questo illegalismo di governo e preoccuparci per le sue conseguenze sulla società, perché tanto è immediata l’efficacia di un decreto legge, quanto un atto di governo ha effetto sulla vita delle persone.

E in questo modo le leggi, invece di servire a organizzare la vita in comune e a garantire i diritti per tutti, diventano un manganello, uno strumento di comando invece che di politica.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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