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Trent’anni fa veniva eletto Cossiga il picconatore

L’ottavo Presidente della Repubblica, il primo eletto al primo scrutinio, ha mostrato, a colpi di piccone, i limiti e la fragilità del sistema dei partiti. Con le sue esternazioni ha preconizzato un futuro remoto che premoniva i sintomi degenerativi del ventennio berlusconiano.
A cura di Marcello Ravveduto
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Con 752 voti, 78 in più dei necessari 674 (ovvero i due terzi dell’Assemblea), Cossiga diventa, il 24 giugno del 1985, l’ottavo Presidente della Repubblica, eletto al primo scrutinio (un’impresa analoga riuscirà solo a Carlo Azeglio Ciampi nel 1999). È il secondo di origine sarda dopo Antonio Segni, vicino al quale è sepolto nel cimitero di Sassari. In più è cugino di terzo grado di Enrico Berlinguer, morto l’anno precedente. Ciriaco De Mita, segretario della Dc, è riuscito a convincere tutti i partiti dell’arco costituzionale a sostenere l’allora presidente del Senato.

Dopo il settennato spumeggiante di Pertini, il partigiano presidente, e dopo aver definitivamente chiuso il capitolo terrorismo, la partitocrazia vira verso una figura meno ingombrante dal punto di vista comunicativo, almeno questa pare la prospettiva iniziale. È stato Ministro della difesa e quindi conosce i segreti di Stato, soprattutto quelli legati alla Guerra fredda sui è necessario mantenere uno stretto riserbo. È stato anche Presidente del Consiglio tra l’agosto del 1979 e l’ottobre del 1980, guidando un Governo che avrebbe messo fine all’esperienza della Solidarietà democratica.

L’esperienza, però, che lo ha segnato di più dal punto di vista umano è quella relativa alla responsabilità del dicastero degli Interni (1976-1978). In quegli anni, con precisione nel 1977, a seguito dei durissimi scontri tra forze di polizia e studenti arriva a vietare tutte le manifestazioni pubbliche a Roma e nel Lazio. Divieto disatteso dai gruppi politici che decidono di manifestare per la morte, a colpi d'arma da fuoco sul Ponte Garibaldi, della militante radicale romana Giorgiana Masi. In questo corteo per la prima volta appaiono le scritte che storpiano il suo cognome in Kossiga, con la doppia esse scritta con i caratteri dell’alfabeto runico (usato da antiche popolazioni germaniche) che richiama il simbolo della milizia paramilitare nazista. Una “etichetta” che torna in auge negli ambienti della sinistra italiana all’inizio degli anni Novanta quando, il 6 dicembre 1991, viene presentata dalle opposizioni parlamentari (Pds, Rc, Rete e Radicali) una richiesta di messa in stato d’accusa, il cosiddetto impeachment.

In realtà, l’unico evento che lo ha realmente stravolto, durante gli anni al Viminale, è stato il rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Il giorno stesso in cui viene ritrovato il corpo dello statista pugliese rassegna le dimissioni da capo della Pubblica sicurezza nazionale. Il corpo privo di vita del cavallo di razza lo getta nello sconforto al punto da dichiarare qualche tempo dopo: «Se ho i capelli bianchi e le macchie sulla pelle è per questo. Perché mentre lasciavamo uccidere Moro, me ne rendevo conto. Perché la nostra sofferenza era in sintonia con quella di Moro». Da allora comincia a soffrire di numerosi problemi di salute, come il disturbo bipolare e la sindrome della fatica cronica, oltre ad essere affetto da un tic nervoso che gli scompagina la parte sinistra del viso in un ghigno feroce.

Moro rimarrà immobile come un fantasma pronto ad agitare le sue notti. Un’assenza fin troppo presente come un senso di colpa che non ti lascia. Un riferimento irrinunciabile, sebbene sia stato tra gli uomini che lo hanno abbandonato. Così, quasi a risarcimento del rifiuto alla soluzione umanitaria, il cattolico del compromesso storico ritorna al centro del suo discorso d’insediamento: «Lo sviluppo non si traduce in speranza civile, se non si unisce alla capacità di risolvere i due grandi problemi della nostra vita nazionale: la disoccupazione e l’arretratezza delle aree meridionali. Due problemi, questi, che si intrecciano tra loro e che, per la loro complessità, devono diventare, se vogliono essere risolti, problemi di tutti, affrontati con l’intraprendenza dei singoli e la responsabilità dello Stato, delle regioni e di ogni istanza pubblica; sono problemi che devono coinvolgere “governo e popolo”, come avrebbe detto l’amico e maestro Aldo Moro, il quale ben sapeva che il nostro sviluppo è stato e dovrà essere sviluppo di popolo, non riservato a pochi, né fatto da pochi, che è cosa impossibile in una società democratica».

Nel primo quinquennio del settennato assolve con dovizia al suo ruolo di notaio della Repubblica. Nessuna sbavatura. Pare accodarsi senza problemi alle esigenze del Pentapartito e del CAF (così è denominata l’alleanza di vertice tra Craxi, Andreotti e Forlani) in un’Italia che sta vivendo un nuovo miracolo economico tutto incentrato sul terziario, sui prodotti del made in Italy e sullo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa, ovvero la Tv commerciale.

Allo scoccare del quinto anno, quell’uomo vissuto nel riserbo e umanamente schivo, cambia improvvisamente registro. Comincia nel marzo del 1990 con un attacco al Consiglio superiore della Magistratura verso il quale deve «togliersi qualche sassolino dalla scarpa». È solo il primo segnale di un bollore che raggiunge la saturazione esplosiva nell’autunno dello stesso anno quando Andreotti, Presidente del Consiglio, ammette la passata esistenza di Stay Behind, o meglio di una struttura paramilitare, nota come Gladio, che avrebbe dovuto attivarsi nel caso in cui le forze del Patto di Varsavia avessero invaso le nazioni dell’Europa occidentale.

La difesa di Cossiga dell’organizzazione segreta, oltre all’elogio per i «patrioti della P2», supera ogni limite: impone veti alla discussione e la esalta di fronte ad una platea di carabinieri. Eugenio Scalfari scriverà: «C’è un’incontinenza verbale e un disprezzo delle regole che non può più… esser passato sotto silenzio».

I comunisti, poi pidiessini dal 1991, ne chiedono l’impeachment, ma l’iter processuale si sgonfia già nel 1992 con la richiesta di archiviazione da parte della Procura di Roma. Nel suo ultimo libro, “La versione di K”, Cossiga accusa gli autori della messa in stato d’accusa di non aver compreso il suo progetto: una riforma istituzionale che significava il superamento della conventio ed excludendum e la fine della «guerra fredda interna» contro i comunisti. E aggiunge: «Fu allora che cominciarono le mie picconate contro le ipocrisie di un sistema che non si lasciava riformare… mi ero fatto patrocinatore di un salto nel futuro, ma ero troppo in anticipo».

Picconando, picconando, chiede le dimissioni del presidente della Corte costituzionale, Ettore Gallo, reo di aver pronunciato un appello ai valori della Resistenza dimenticati e calpestati; aggredisce il sistema dei partiti, non senza ragione, che ha trasformato la politica in «pura contesa di potere», sottolineando la crescente disaffezione dei cittadini; dichiara, dopo la vittoria referendaria per la preferenza unica, illegittimo il Parlamento chiedendo il ricorso al «voto di popolo»; mobilita correnti sotterranee reazionarie che manifestano piena solidarietà alle “picconate” considerate «autorevoli contributi» destinati a moralizzare le istituzioni.

Uno sproloquio talmente urlato da provocare, infine, l’afasia che si manifesta con prepotenza nel messaggio di fine d’anno del 1991, il più breve di tutta la storia repubblicana (durato in tutto tre minuti e mezzo), in cui afferma: «Parlare non dicendo, tacendo anzi quello che tacere non si dovrebbe, non sarebbe conforme alla mia dignità di uomo libero, al mio costume di schiettezza, ai miei doveri nei confronti della Nazione. E questo proprio ormai alla fine del mio mandato che appunto va a scadere il prossimo 3 luglio 1992. Questo comportamento mi farebbe violare il comandamento che mi sono dato, per esempio di un grande Santo e uomo di stato, ed al quale ho cercato di rimanere umilmente fedele: privilegiare sempre la propria retta coscienza, essere buon servitore della legge, ed anche quindi della tradizione, ma soprattutto di Dio, cioè della verità. Ed allora mi sembra meglio tacere». Torna ancora il fantasma di Moro.

Nelle esternazioni di Cossiga si possono notare tre sintomi che annunciano l’arrivo della seconda Repubblica: la critica alla magistratura portata sino al conflitto di poteri; il superamento della crisi dei partiti attraverso l’affermazione di un populismo presidenzialista; l’uso esasperato dei mezzi di comunicazione di massa che confligge con lo spirito della Costituzione.

Qualche anno prima della discesa in campo di Berlusconi, Umberto Eco, riferendosi all’onnipresenza di Cossiga sui media, scrive: «Pertanto un Presidente che può ottenere accesso alla televisione ogni qual volta lo richieda… fatalmente viene ad ottenere un potere di influenza sull’opinione pubblica e in definitiva un potere potenzialmente “esecutivo” di cui i costituenti non potevano avere alcuna idea».

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