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Trattativa Stato-Mafia, spunta lettera minatoria all’allora Presidente Scalfaro

Febbraio 1993, poco tempo dopo le stragi mafiose del ’92, Oscar Luigi Scalfaro riceve una lettera minatoria contro il carcere duro per i mafiosi. Ne segue l’esonero dal 41bis di 300 criminali. Oggi il testo è nel processo sulla trattativa tra Stato e mafia per uscire dalla stagione stragista.
A cura di Gianfranco Stabile
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Una lettera piena di allusioni e minacce all'allora presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro. È questo l'ultimo tassello reso pubblico della presunta trattativa segreta tra Stato e Mafia per porre fine all'azione stragista di Cosa Nostra che portò alla morte, tra gli altri, di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Era il febbraio del 1993 quando Scalfaro, da poco insediatosi, ricevette una lettera dalla “forma arrogante”, come scrivevano gli stessi mafiosi anonimi firmatari del testo. Una missiva scritta dai parenti di quegli esponenti della criminalità organizzata rinchiusi in regime di carcere duro previsto dall'odiato articolo 41bis del Codice Penale.

“ Ci rivolgiamo a Lei non per chiedere carità ma perché la riteniamo responsabile in prima persona quale responsabile e garante delle più elementari forme di civiltà ”
Mafiosi anonimi
Proprio l'abolizione della norma era l'oggetto della lettera che era anonima “non per paura, ma per evitare ulteriori pene ai nostri familiari” scrivevano i mafiosi. Oggi a dare credibilità a quel testo, peraltro inviato ad altre alte cariche dello Stato ed al critico d'arte Vittorio Sgarbi, c'è anche la forse non casuale coincidenza delle agevolazioni concesse in quel periodo dall'allora ministro di Giustizia Conso ad oltre 300 mafiosi cui fu revocato all'improvviso il carcere duro ex 41bis.

“Ci rivolgiamo a Lei non per chiedere carità ma perché la riteniamo responsabile in prima persona quale responsabile e garante delle più elementari forme di civiltà” inizia così la lettera che fin dalle prime battute appare minatoria. La lettera chiede in un elenco dettagliato di punti di concedere a chi si è macchiato di efferati crimini di poter condurre una vita “normale” nel carcere e di non costringere i familiari ad attraversare l'Italia per un'ora di visita alla settimana.

Dopo aver denunciato il trattamento simile a “cani randagi” riservato ai propri familiari e la violenza dei secondini definiti “killer di Stato”, le 4 pagine di missiva si concludono in un crescendo di più o meno velate intimidazioni. “Se lei ha dato ordine di uccidere, bene, noi ci tranquillizziamo, se non è così guardi che per noi è sempre il maggior responsabile, il più alto responsabile dell'Italia "civile" che, con molto interesse, ha a cuore i problemi degli animali, i problemi del terzo mondo, del razzismo e dimentica questi problemi insignificanti perché si tratta di detenuti, ovvero di carne da macello”.

La lettera è oggi al vaglio della magistratura palermitana, precisamente dei pubblici ministeri Di Matteo ed Ingroia che l'hanno inserita nel processo in cui si accusa l'ex prefetto Mario Mori di concorso esterno in associazione mafiosa, sospettato di aver condotto la presunta trattativa tra Stato e mafia.

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