Mercoledì 8 marzo 2017, in occasione della Giornata Mondiale delle Donne, in oltre trenta Paesi del mondo le donne scenderanno in piazza per protestare contro tutte le forme di diseguaglianza e discriminazione che affliggono le rappresentanti del genere femminile e contro la violenza sulle donne in ogni sua forma. Lo sciopero, promosso nel mondo dal movimento americano Women’s March e in Italia dall'organizzazione "Non una di meno" con la partecipazione di numerose sigle sindacali, mira a sensibilizzare l'opinione pubblica sul tema della discriminazione di genere. Ribattezzato in Italia #LottoMarzo, la grande manifestazione prevede che le donne per 24 ore scioperino in ogni forma possibile, in ambito lavorativo, in ambito familiare e in ambito commerciale. Per una giornata, quindi, le donne non lavoreranno, non faranno acquisti e faccende di casa per dimostrare alla società quando importante sia il valore del proprio lavoro, molto spesso bistrattato, maltrattato e poco considerato, e quanto fondamentale sia l'apporto economico, sociale, produttivo, professionale e creativo di una categoria frequentemente trascurata. Tra i vari temi sociali al centro dello sciopero generale LottoMarzo c'è quello del cosiddetto "Gender pay gap", ovvero l'esistenza di un palpabile divario retributivo di genere che nel mondo del lavoro penalizza le donne rispetto ai colleghi di sesso opposto.
Il gender pay gap in Europa
Secondo una recente ricerca di Eurostat, nell'Unione europea le donne guadagnano in media il 16,3% in meno degli uomini, il 7,3% in Italia. "Le donne hanno ancora meno probabilità rispetto agli uomini di avere un lavoro retribuito, tendono a lavorare meno ore, hanno retribuzioni orarie inferiori, e si concentrano in un numero minore di settori ben pagati. Le donne devono affrontare ancora grandi ostacoli per raggiungere posti dirigenziali. Rischiano di essere molestate al lavoro, a casa o in strada. Sono anche le principali vittime delle nuove forme di violenza", spiegò Vĕra Jourová, commissario Ue per la giustizia e la parità di genere, presentando il rapporto dedicato all'uguaglianza di genere. Sostanzialmente, questo divario retributivo medio costa alle donne europee circa due stipendi annui, il che significa, traducendo, che è come se da novembre a fine anno le donne lavorassero praticamente gratis. Un'ulteriore recente ricerca della Commissione europea ha rilevato che in Ue, in media, solo un manager su tre è donna. Inoltre, le poche donne manager europee che hanno raggiunto posizioni di alto livello guadagnano in media uno stipendio orario inferiore di circa il 23% rispetto a quello percepito da un omologo uomo, sottolineando l'esistenza di una evidente disparità di genere.
L'occupazione femminile in Italia
Sebbene i dati relativi alla situazione italiana siano a prima vista migliori rispetto alla media europea, questo indicatore tuttavia non descrive una situazione occupazionale positiva per le donne del Belpaese, ma esattamente il contrario. Il gender pay gap elaborato dall'Eurostat, infatti, si riferisce al divario salariale orario e non a quello globale annuale. In Italia l'occupazione femminile, secondo le ultime rilevazioni Istat, è pari al 48,1%, 19 punti percentuali in meno rispetto a quella maschile. A questo dato vanno inoltre aggiunte due ulteriori considerazioni: circa una donna lavoratrice su 3 lavora part-time, e nel 60% dei casi non è frutto di una libera scelta, e il reddito medio delle donne occupate si attesta a 16.191 euro annui contro i 24.329 euro degli uomini (Dati Mef 2015).
Una recente ricerca condotta da Eurostat ha rivelato che nell’Unione Europea le donne guadagnano in media il 16% in meno degli uomini, il 7,3% in Italia. Quali sono le principali cause di questo divario retributivo di genere?
"Le donne subiscono maggiormente i fenomeni di precarietà e instabilità occupazionale e lavorativa. Le donne hanno più frequentemente dei contratti di tipo part-time, soprattutto involontari, quindi di fatto vengono retribuite meno, con i voucher oppure hanno contratti atipici. Non irrilevante il fatto che i lavori a carattere prettamente femminile, come quelli nel settore dell'assistenza sociale o dell'istruzione, per esempio, vengono sempre più spesso esternalizzati e dati in concessione o in sub-appalto a cooperative che erogano retribuzioni fuori dai contratti collettivi nazionali e questo porta all'abbassamento non solo delle retribuzioni correnti, ma anche di quelle differite, ovvero quelle previdenziali, con conseguente perdita dei diritti, come la malattia, le ferie, la maternità", spiega a Fanpage.it Marta Fana, ricercatrice di Economia presso l'Institut d'études politiques di Parigi e consulente Ocse.
Quanto pesa la mentalità sessista in ambito professionale a livello di blocco di progressione delle carriere e in termini di occupazione femminile?
"Per retaggio culturale, in Italia le donne hanno storicamente meno possibilità di fare avanzamenti di carriera e di progredire a livello professionale. Ovviamente, ricollegandomi alla questione dell'incidenza della precarietà e dell'instabilità lavorativa, lavorando spesso con contratti atipici e saltuari è molto più difficile fare carriera. Non solo: si pensi al settore dell'istruzione, che tradizionalmente ha un'alta occupazione femminile. La forza lavoro è composta per la maggior parte da insegnanti donne e professoresse, ma poi molto spesso il ruolo esecutivo, quello del dirigente scolastico, è affidato agli uomini. L'esercizio della funzione propria di quel settore è affidata alle donne, ma l'esercizio del potere all'interno dello stesso settore è invece delegato agli uomini", prosegue Fana, sottolineando dunque l'esistenza di una profonda discriminazione di genere frutto del retaggio culturale del Belpaese.
Christine Lagarde nel 2015 lanciò un allarme sostenendo che le pari opportunità sarebbero insidiate da numerosi fattori che di fatto discriminano le donne, con deleteri effetti sul Pil dei vari Paesi (In Italia Fmi rilevò una perdita del 15% di Pil potenziale a causa della discriminazione). Quali soluzioni, a livello legislativo, si potrebbero attuare per ridurre l’incidenza del fenomeno?
"Dobbiamo considerare che in un mondo così diseguale, parlare di pari opportunità è fuorviante. Per esempio, nel caso italiano, le donne negli ultimi anni le donne hanno raggiunto gli uomini come quota di lavoratrici a voucher. Non credo francamente che i voucher possano essere considerati un'opportunità e che le donne abbiano eguagliato gli uomini nell'essere sfruttate non credo possa essere considerato un avanzamento. Insomma, se il contributo al Pil aumenta perché trainato da una maggiore occupazione femminile, ma poi la distribuzione del Pil va sempre a favore di una fascia ricca di popolazione, abbiamo fatto poco in termini di coesione sociale e di giustizia sociale. Più che puntare sulla retorica delle "quote rosa" che mirano a inserire nel mondo del lavoro le donne in quanto donne, è meglio agire a livello di Welfare, ad esempio la creazione di asili nido e attraverso il finanziamento di tutta una serie di servizi che possano migliorarne la qualità della vita, dai consultori alle politiche abitative. Il Welfare però non deve essere visto come qualcosa dato in cambio del lavoro svolto, è un diritto delle donne. Le pari opportunità non sono una questione di identità femminile, ma di classe. La figlia di una persona ricca non avrà molti problemi a fare carriera, a pagare una babysitter, ad accedere a prestazioni sanitarie private, mentre è diverso il discorso per quella fascia di popolazione che questi servizi non può permettersi di pagarli".