Il caso dello stupro di gruppo agito da 7 giovani uomini ai danni di una loro coetanea a Palermo sta suscitando reazioni estreme nell’opinione pubblica. Le ragioni non sono difficili da capire: non solo si tratta di una violenza inaudita, ma le chat divulgate, i frammenti video e le dichiarazioni degli indagati (e dei loro genitori) mostrano un retroterra culturale di brutalità, prepotenza e indifferenza che sembra estraneo da ogni umanità. Forse in pochi casi come questo l’espressione “cultura dello stupro” si manifesta con così tanta eloquenza, perché stavolta abbiamo le prove che questa violenza è figlia di un problema collettivo che va al di là della responsabilità dei singoli indagati, coinvolgendo l’educazione di genere, la pornografia, la dinamica del gruppo, l’esibizionismo dei social, il senso di impunità.
In realtà questo accade in ogni singolo caso di violenza di genere, anche se non sempre così alla luce del sole. Questa potrebbe essere un’ottima occasione per aprire finalmente un dibattito sulle reali cause dell’abuso, per analizzare i modelli di mascolinità a cui guardano gli adolescenti, per introdurre finalmente l’educazione sessuale e affettiva nelle scuole, e invece quello che sta succedendo è la ripetizione della violenza, seppur con altri modi. I nomi, le foto e i profili social degli indagati spiattellati in ogni angolo di Internet, la ricerca dell’identità dei genitori (specie delle madri, perché fa sempre comodo dare la colpa a una donna), gli auguri che una volta in carcere subiscano le stesse cose che hanno fatto patire alla ragazza.
La rabbia, di fronte a un caso come questo, è un sentimento più che giustificato. Ma la rabbia che si trasforma in vendetta forcaiola non spezzerà mai il ciclo della violenza. La “mostrificazione” dei sette uomini serve solo ad allontanarli dal perimetro della nostra coscienza, a creare una distanza tra “noi” e “loro”. Gli studi sulla deumanizzazione, come quelli della psicologa sociale Chiara Volpato, mostrano come il primo passo della violenza sia sempre la riduzione di una persona (o un gruppo) a una bestia, un mostro o un oggetto. La deumanizzazione funge da giustificazione alla violenza, perché riduce la nostra capacità di empatia verso qualcosa che percepiamo come non-umano, e ci consente di sollevarci dalle nostre colpe. I sette indagati hanno deumanizzato la propria vittima, come è evidente dalle dichiarazioni che sono state divulgate, e ora noi mettiamo in atto lo stesso meccanismo nei loro confronti. Questo ci dà il permesso di chiederne la morte, la tortura o la punizione più crudele che ci possa venire in mente, e ci rassicura di essere dalla parte giusta.
Ma siamo davvero dalla parte giusta? La responsabilità di quanto è accaduto non si esaurisce né nelle sette persone coinvolte, né nelle loro famiglie, ma si estende a chi ha cercato il video su Google, a chi ha pensato di dare la colpa alla vittima, a chi voleva conoscerne l’identità, a chi ha voluto rimarcare che non tutti gli uomini sono così, a chi ha partecipato alle chat senza porsi il problema che divulgare il video di uno stupro sia qualcosa di terribile, oltre che un reato.
Le chat e lo scambio di materiale intimo non consensuale
Il tema delle chat richiede un discorso a parte, perché oltre alle chat private degli indagati, in queste ore stanno emergendo screenshot da diversi gruppi Telegram di scambio di materiale intimo non consensuale in cui persone del tutto estranee alla vicenda chiedono di ricevere il video della violenza. Il fenomeno è molto diffuso: secondo il report dell’associazione PermessoNegato, in Italia esisterebbero almeno 230 gruppi Telegram dediti a questo scopo, con il più numeroso che conta oltre 450mila utenti, per un totale di utenti non unici di oltre 13 milioni di italiani. In molti casi, le foto e i video divulgati sono anche a carattere pedopornografico. Sebbene il revenge porn sia reato dal 2019, questi gruppi continuano a esistere indisturbati e le piattaforme digitali che li ospitano non hanno alcun tipo di responsabilità penale. Anzi, i fruitori sono in crescita: nel 2020, il report di PermessoNegato contava meno della metà degli utenti.
Queste chat sono solo la punta dell’iceberg, perché come hanno mostrato diverse inchieste, questi fenomeni si estendono anche a gruppi informali di ogni tipo, dai gruppi dei colleghi a quelli del fantacalcio, dove tra meme, battute e discussioni c’è spazio anche per la condivisione di immagini intime di fidanzate e conoscenti. Non tutti gli utenti delle chat partecipano a questi rituali di violenza, ma molti esitano a lasciarle o, soprattutto, a prendere le distanze o condannare quanto avviene al loro interno. Questo accade perché, come scrivono Lucia Bainotti e Silvia Semenzin nel loro libro Donne tutte puttane. Revenge porn e maschilità egemone, questi gruppi servono a costruire e rafforzare la mascolinità soprattutto attraverso la competizione sessuale e l’oggettivazione femminile. Stare dentro quei gruppi, anche passivamente, significa accettare quel modello di mascolinità, accettare che le cose funzionano così e basta, che non ci sono modi alternativi di essere uomini.
Oggi tutti si affrettano a rimarcare la distanza da sette persone: noi, gli uomini che non farebbero mai del male a una donna; loro, le bestie e i mostri. Fino a sette è facile, ma tredici milioni? E chissà quanti ancora, nelle chat fra amici e colleghi e tra quelli che hanno cercato il video su Google e sui siti porno “per curiosità”. Forse questa distanza non è così vasta come vogliamo credere. Forse loro non sono i mostri che dipingiamo, ma fino a un mese fa erano soltanto dei ragazzi “normali”, che nel gruppo del calcetto ridevano delle battute degli amici e chiedevano se per caso qualcuno avesse qualche video da mandare.