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Autonomia differenziata delle Regioni

Torna l’autonomia differenziata: così il governo Draghi rischia di allargare il divario Nord – Sud

Asili nido comunali: all’anno un bambino emiliano ha 1724 Euro, un bambino campano 219 Euro. Il Governo Draghi ridurrà o aggraverà il divario Nord Sud con il ddl su Autonomia Differenziata?
A cura di Redazione
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di Gregorio De Falco, senatore gruppo Misto e Andrea Del Monaco, Esperto Fondi Europei

Il governo Draghi aggraverà il divario territoriale nei diritti di cittadinanza, con il ddl sull'Autonomia Differenziata e gli articoli connessi in legge di Bilancio? Oggi nascere a Reggio Calabria o a Bologna cambia la vita. I dati si mantengono stabili negli anni. Nel 2013, per gli asilo nido, un bambino con meno di tre anni, se residente nel comune di Reggio Calabria aveva 31 euro all’anno, se residente nel comune di Bologna aveva 3400 euro. Un bambino bolognese vale più di 100 bambini reggini. Nel 2017, su base regionale, per gli asili nido comunali o finanziati dai comuni, un bambino con meno di tre anni, se residente in Campania aveva 219 euro all’anno, se residente Emilia Romagna aveva 1754 euro. Numeri alla mano, per lo Stato, nel riparto della spesa dei comuni sugli asili nido, un bambino emiliano vale otto bambini campani.

Come si è arrivati a tale squilibrio? Grazie al riparto del finanziamento del governo centrale a Regioni e Comuni sulla base del principio della spesa storica: chi ha avuto dal secondo dopoguerra ingenti strutture e servizi, ha avuto riconosciuto un alto fabbisogno standard. Al contrario, chi storicamente ha avuto scarse strutture e servizi, ha avuto riconosciuto dallo Stato un basso fabbisogno standard.  Q uesto divario rischia di essere aggravato dall’attuazione dell’autonomia differenziata. Perché? Perché l’autonomia differenziata, contemplata dalla modifica dell’articolo 116 comma 3 della Costituzione, traduce in legge costituzionale il divario crescente tra Regioni del Nord e Regioni del Sud del Paese in termini di risorse, di infrastrutture materiali e immateriali, e di servizi.

Autonomia, a che punto siamo

Andiamo con ordine. Il 28 febbraio 2018 il presidente lombardo Fontana, il presidente emiliano Bonaccini e il presidente veneto Zaia firmarono tre diversi accordi per l’autonomia differenziata con l'allora presidente del Consiglio Gentiloni. Cosa volevano le tre regioni? La delega di nuove materie, e, soprattutto, trattenere i tributi dei loro cittadini presso i propri territori e non devolvere tali tributi allo Stato. Così l’attuale divario Nord/Sud non  si aggraverebbe: concretamente sugli asili nido un bambino emiliano varrebbe ancor più di otto bambini campani. La pandemia da Covid 19 ha interrotto questo processo.

Ora il Governo Draghi riprende l’attuazione dell’autonomia differenziata in due modi. In primis, inserisce tra i disegni di legge collegati alla Nota di Aggiornamento al Def, il disegno di legge attuativo dell’art. 116, comma 3, della Costituzione. O meglio, l’annuncio del ddl poiché il testo ancora non esiste. Nel contempo la ministra Gelmini annuncia una nuova legge-quadro, erede di quella dell'ex ministro Boccia e dei tre diversi accordi. Come ricordato da Massimo Villone su Il Manifesto, tutto avviene segretamente, come durante il Conte I, con la ministra leghista Stefani. Il progetto di autonomia differenziata vuole costituzionalizzare l’iniquità della spesa storica, ben evidenziata da Marco Esposito nel volume “Zero al Sud”.

In secondo luogo  il governo inserisce nella Legge di Bilancio 2022  ben 4 articoli (43, 44, 45, 179 secondo il testo licenziato), che fanno riferimento ai Livelli Essenziali di Prestazione (LEP): tali articoli, molto generici, fanno credere che lo Stato abbia identificato gli obiettivi dei servizi e i costi medi dei LEP.  Si crea l'illusione che lo Stato ripartisca le risorse secondo il principio di solidarietà, previsto dall’articolo 2 della Costituzione. E che il governo vari l'autonomia differenziata dopo aver definito gli obiettivi dei servizi, i costi medi degli stessi e i LEP, presupposti indicati dalla Corte dei Conti. Nel testo è assente qualunque riferimento al fondo di perequazione: ergo, senza le risorse necessarie per un preventivo riequilibrio tra le diverse aree del paese, ogni anno per l’asilo nido al bambino reggino rimarranno sempre 31 euro, e, al bambino bolognese 3400 euro.

Queste norme non fissano dei criteri, non individuano obiettivi, costi e quindi livelli di prestazione. Indicano solo una procedura nella quale vi è  il parere obbligatorio, ma non vincolante, della Commissione tecnica per i fabbisogni standard.  L'articolo 179, malgrado abbia come titolo “Disposizioni concernenti le modalità per il riparto delle risorse LEP da assegnare agli enti locali” non dispone nulla di chiaro sulla perequazione. I suddetti articoli non considerano il divario esistente oggi, non istituiscono un fondo di perequazione da mettere a sistema con i LEP e quindi incrementano lo squilibrio tra le regioni. Il Governo vuole far intendere di aver posto in essere le condizioni per poter dar luogo all’autonomia differenziata. L'individuazione degli obiettivi di servizio, la determinazione dei costi medi, l'individuazione dei LEP e la creazione del fondo perequativo non possono essere sostituiti da una procedura che prevede solo il parere non vincolante di una Commissione di natura amministrativa.

Il divario Nord-Sud

Veniamo con ordine ai dati. Nel Report Istat del 2016 “Asili nido e altri servizi socio-educativi per la prima infanzia: il censimento delle unità di offerta e la spesa dei comuni”, si riporta la differente spesa per bambino residente negli asili nido comunali o finanziati dai comuni capoluoghi di Provincia. Nel 2013, nel Comune di Trento si spendono 3.560 euro per ciascun bambino residente, a Bologna 3.408 e a Roma 2.948. La spesa si abbassa molto nei Comuni del |Mezzogiorno arrivando a Reggio Calabria a 31 euro per bambino, Vibo Valentia 57 euro, Catanzaro 67 euro, Sanluri 68 euro. La tabella sottostante è in ordine decrescente. A sinistra, sopra i 2000 euro a bambino Venezia, Modena, Pisa, Pavia, Como. A destra, con l’eccezione di Treviso e Rovigo, sotto i 500 euro a bambino,  solo comuni meridionali come Agrigento, Brindisi, Foggia, Caserta, Latina.

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Guardando alla spesa per macroaree riportata nella tabella successiva del Report Istat 2016, si evidenzia il divario Nord-Sud: nel 2013 i Comuni avevano da spendere mediamente a livello nazionale, in rapporto ai bambini residenti sotto i tre anni, 780 euro (contro gli 800 dell’anno precedente). Tuttavia, la dotazione è molto differenziata a livello territoriale: per un bambino residente al Sud 206 euro, nelle isole 443 euro, al Nord-ovest 817 euro, al Nord-est 1.056 euro e al Centro 1.328 euro. Un bambino meridionale vale la metà di un bambino insulare, un quarto di un bambino del Nord Ovest, un quinto di un bambino del  Nord Est, meno di un sesto di un bambino del centro.

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Come evidenziato nel report Istat del dicembre 2019 dal titolo “Offerta di asilo nido e servizi integrativi per la prima infanzia”, la situazione non è cambiata anni dopo.  Nel 2017 la spesa dei comuni singoli e associati per i servizi socioeducativi, ripartita su base regionale,  per bambino residente di età tra i zero e i due anni è la seguente:  Provincia autonoma di Trento 2235 euro, Val D’Aosta 1929 euro, Emilia Romagna 1724 euro, Lazio 1654 euro, Toscana 1485 euro, Liguria 1219 euro, provincia autonoma di Bolzano 1179 euro,  Friuli Venezia Giulia 1076 euro, Umbria 1004 Euro, Lombardia 844 euro, Piemonte 759 euro, Marche 697 euro, Sardegna 578 euro, Veneto 551 euro, Abruzzo 428 euro,  Sicilia 364 euro, Molise 324 euro, Basilicata 317 euro, Puglia 284 euro, Campania 219 euro, Calabria 116 euro. Per lo Stato, nel riparto della spesa dei comuni sugli asili nido, un bambino trentino vale venti bambini calabresi, un bambino emiliano vale circa sedici bambini campani, un bambino laziale vale 15 bambini calabresi.

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Questi dati sugli asili nido sono solo una piccola parte della spesa effettuata dai comuni. La possibilità di un’eventuale perequazione è data dalla ripartizione del fondo di solidarietà comunale. I partiti discutono in modo trasparente e informano i propri elettori? La risposta è nelle parole dell’allora presidente della Commissione Parlamentare di Attuazione del Federalismo Fiscale Giancarlo Giorgietti nella seduta del 30 Aprile 2015 sui criteri di riparto del fondo di solidarietà comunale per quell'anno. Giorgietti dopo l’audizione di Fabrizia Lapecorella, allora direttore generale del Dipartimento delle finanze del ministero dell’economia, disse alla stessa Lapecorella: «Sicuramente avrete nel vostro sistema la capacità di produrre questo tipo di dati, per cui vi pongo la seguente domanda. Se applicassimo non il 20 per cento, ma il 100 per cento della perequazione e non stabilizzassimo al 45,8 per cento, quale sarebbe l’effetto di una perequazione piena del sistema che abbiamo così faticosamente costruito? I dati probabilmente sarebbero scioccanti, magari ce li fate avere in modo riservato o facciamo una seduta segreta, come avviene in Commissione antimafia.»

Per conoscere veramente la spesa pubblica al Sud e al Nord,  sono necessari i dati del sistema dei CPT, parte del Sistema Statistico Nazionale: infatti essi comprendono i flussi finanziari (pagamenti definitivi e riscossioni effettivamente realizzate) del Settore Pubblico Allargato (SPA), di cui la spesa dello Stato è solo una parte. Esso comprende, oltre alla Pubblica Amministrazione (PA), i flussi finanziari di soggetti, nazionali e locali sui quali è presente un controllo (diretto e indiretto) da parte di Enti Pubblici. Al netto degli interessi, in termini di spesa pubblica annua pro-capite del Settore Pubblico Allargato, secondo gli ultimi dati disponibili del 2018, un cittadino del Centro-Nord riceve 17.621 Euro, il cittadino meridionale riceve 13.613 Euro. La differenza è 4008 Euro. Che significa? Che se i diritti di cittadinanza dei meridionali valessero quanto i diritti di cittadinanza dei settentrionali, lo Stato, nelle sue varie articolazioni, spenderebbe nel Mezzogiorno quasi 83 miliardi in più ogni anno per i suoi 20,697 milioni di abitanti. Con una spesa pubblica pro-capite annua per il Sud pari a quella per il Nord, forse gli ospedali meridionali sarebbero efficienti come quelli lombardi, veneti o emiliani. E i meridionali non sarebbero costretti a fare i turisti della sanità.

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Cosa cambia con l'Autonomia?

Ma cosa accadrebbe se passasse l’autonomia differenziata? Malgrado i sostenitori  dichiarino di voler istituire contemporaneamente i livelli essenziali di prestazione per tutte le altre regioni, per garantire a tutti i cittadini gli stessi livelli di qualità dei servizi, ciò non deve rassicurare i cittadini meridionali. Osserviamo la tabella successiva i cui dati sono estratti dal saggio di Adriano Giannola e Gaetano Stornaiuolo dal titolo "Un'analisi delle proposte avanzate sul federalismo differenziato" pubblicato sul numero 1-2 del 2018 della Rivista economica del Mezzogiorno. Su 751 miliardi di bilancio annuale dello Stato, ne verrebbero a mancare 190, qualora passasse la proposta estrema del Governatore veneto Zaia di trattenere il 90% delle tasse e dei tributi delle regioni a Statuto Ordinario nei loro rispettivi territori. Quei 190 miliardi uscirebbero dal bilancio dello Stato nazionale ed entrerebbero nel bilancio di Veneto, Lombardia ed Emilia Romagna. Concretamente cosa significa? Che il suddetto divario di 4008 Euro tra la spesa pubblica pro-capite annua del Centro-Nord e quella del Sud si aggraverebbe ulteriormente. Implicherebbe insomma l’arretramento della presenza dello Stato al Sud. Meno ospedali, meno scuole, meno infrastrutture, meno asili, meno musei e università nel Meridione.

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Ma come si arriva a questa situazione? Dopo la ricostruzione post bellica, nel 1950 l’istituzione della Cassa del Mezzogiorno avvia uno sviluppo sinergico del Nord e del Sud e consente al Paese intero una crescita eccezionale. Come ricordato da Gianfranco Viesti in “Centri e Periferie”, tra il 1951 e il 1971 il pil meridionale crebbe del 6% all’anno. L’intervento straordinario per il Sud portò benefici e prospettive di sviluppo per il Paese intero. La politica di sostegno dell’offerta ottenne brillanti risultati ed il pil del Sud crebbe più di quello del Nord. Per la prima volta, dopo l’unità d’Italia, Sud e Nord crebbero insieme. Dopo il 1970, con l'istituzione delle Regioni, la Cassa perse il proprio ruolo di Ente Tecnico e di snellimento burocratico. La Cassa per il Mezzogiorno venne soppressa nel 1984, fu sostituita nel 1986 dall’AgenSud, che fu a sua volta soppressa nel 1992. E qui il primo problema: di fronte ai casi di corruzione e sprechi della Cassa per il Mezzogiorno negli ultimi suoi venti anni di vita, il governo nazionale avrebbe dovuto reagire con interventi nel Meridione, basati su vero sviluppo e legalità. Al contrario la soluzione fu la fine dell’intervento straordinario. Successivamente, il vincolo esterno di Maastricht e le conseguenti politiche di austerità hanno allargato il divario.

Attenzione alle date. Nel 1992 entra in vigore il Trattato di Maastricht, nel 1997 il ministro delle Finanze tedesco Weigel inventa il Patto di Stabilità, nel 1999 l’euro entra in vigore, nel 2002 l’euro entra in circolo, nel 2011-2012 i paesi UE sottoscrivono il Fiscal Compact e l’intero pacchetto normativo che irrigidisce il Patto di Stabilità. Vediamo cosa accade in Italia durante la costruzione della UE. La fine della sovranità monetaria e la contrazione della spesa pubblica, già dagli anni Novanta anticipano “la secessione dei ricchi”, per citare Gianfranco Viesti. Poiché si contraggono il potere di intervento dello Stato e la spesa pubblica, il ricco Nord vuole trattenere le tasse e i suoi tributi, tradendo lo spirito della Costituzione. Lo ha spiegato bene il Professor Sergio Marotta nel saggio dal titolo “Regionalismo differenziato: cos’è e quali rischi comporta”. Franco Bassanini, Ministro della Funzione Pubblica nei Governi Prodi-D’Alema-Amato, iniziò il processo con la legge 59 del 1997 che avrebbe dovuto realizzare il federalismo a Costituzione invariata.

La narrazione dominante ubriacava l’opinione pubblica con la parola magica della sussidiarietà: essa avrebbe realizzato un’azione amministrativa più efficiente. Nella sostanza, il governo allargava il divario Nord-Sud nella ripartizione della spesa pubblica; i governi dell’Ulivo elaborarono i nuovi criteri di riparto dei fondi per la sanità, criteri riassunti nel Decreto Legislativo 56 del 2000: formalmente resisteva il servizio sanitario nazionale, sostanzialmente i fondi per la sanità (mediamente il 70% dei bilanci regionali) venivano ripartiti con una distribuzione differenziata, favorendo le già ricche regioni settentrionali e danneggiando le già povere regioni meridionali. Lo ammette anche il professor Piero Giarda nel volume “L’esperienza italiana di federalismo fiscale. Una rivisitazione del decreto legislativo 56/2000”, laddove si chiede perché un governo e una maggioranza di centrosinistra siano stati «così malvagiamente antipoveri». Piero Giarda non è un bolscevico, ma il sottosegretario al Tesoro nei suddetti Governi Prodi-D’Alema-Amato.

Ultimo strumento di allargamento del divario Nord-Sud fu la Legge Costituzionale n. 3 del 2001. Per inseguire l’elettorato leghista e per soddisfare le richieste della Confindustria del Nord il nuovo articolo 119 cancellava ogni riferimento al Mezzogiorno e introduceva il pericoloso principio, secondo cui gli enti locali compartecipano al gettito dei tributi erariali «riferibile al loro territorio». La suddetta compartecipazione al gettito dei tributi erariali da parte degli enti locali è il germe della “secessione dei ricchi”, voluta oggi da Luca Zaia (Lega), da Attilio Fontana (Lega) e da Stefano Bonaccini (PD).  Perché? Perché la Costituzione repubblicana fonda l’unità del Paese sui principi di eguaglianza formale e sostanziale dei cittadini e di solidarietà economico-sociale.

Tale unitarietà della Repubblica, secondo l'articolo 5 della Costituzione, riconosce e promuove le autonomie locali per valorizzare le specificità territoriali. Intelligentemente, l'articolo 5 affianca al principio di unitarietà dello Stato la valorizzazione delle specificità territoriali, attraverso lo strumento dell'autonomia regionale e attraverso quello del decentramento della potestà dello Stato. La Costituzione crea un sistema complesso: consente il riconoscimento delle autonomie solo per la reale valorizzazione di specificità locali. Al contrario, da un lato, la immotivata pretesa di potestà legislativa delle regioni infrange il principio di unitarietà dello Stato. Da un altro lato, tale pretesa di potestà legislativa svela l'obiettivo di trattenere i tributi sul proprio territorio regionale. In ogni caso, la Carta Costituzionale, anche dopo la confusionaria riforma del Titolo V, deve essere letta nel suo insieme, assicurando coerenza all’intero sistema: il decentramento non può violare i principi di solidarietà e di equità.

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