Alla vigilia delle elezioni politiche del 4 marzo 2018, il leader del Movimento 5 stelle Luigi Di Maio chiudeva la campagna elettorale leggendo una lettera davanti a migliaia di militanti: “Noi abbiamo il dovere di cambiare questo Paese, nonostante tutto questa volta possiamo farcela davvero”. Era l’ultimo atto di una trionfale campagna che avrebbe portato a un risultato clamoroso: il 32,7% dei voti alla Camera, il 32,2% al Senato, con 336 parlamentari eletti. Cinque anni e tre governi dopo, il Paese è certamente cambiato, non nella direzione e col contributo che Di Maio prometteva. Soprattutto, è cambiato il Movimento, praticamente in ogni aspetto: alleanze, leadership, codici, piattaforma ideologica, classe dirigente. La legislatura della consacrazione come forza di governo è diventata quella della disgregazione. Al punto che, dopo la crisi del governo Draghi e l’indizione di elezioni anticipate, viene da chiedersi quale sia il futuro della creatura di Beppe Grillo. E se vi sia ancora un futuro.
In un’intervista al Corsera, Conte ha esplicitamente parlato di terzo polo, lasciando intendere che sta lavorando a un campo largo (“un campo giusto”), che possa essere un “terzo incomodo” alle prossime elezioni e costituire un’alternativa al nuovo bipolarismo disegnato dalla caduta di Draghi e dal riposizionamento dei partiti della vecchia maggioranza. È un primo indizio su cosa intenda fare il capo politico del M5s dopo la rottura con il Partito democratico, che ha mandato in fumo un lavoro di mesi su una piattaforma programmatica comune e un’offerta di governo alternativa a quella della destra di Meloni e Salvini.
È da qui che dobbiamo partire per provare a comprendere scelte e intenzioni dei grillini. Dopo la caduta di Draghi i colloqui fra Conte e Letta sono andati avanti per giorni, con il capo politico dei Cinque stelle che ha cercato di ricucire con il segretario democratico ribadendo la propria lettura della crisi politica. Letta è stato irremovibile: nessuna apertura, nessun margine per tornare a parlare di alleanze o programmi comuni, neanche nel formato della “grande alleanza per fermare la destra”. La pessima gestione della crisi da parte dei 5 stelle ha rafforzato il peso delle correnti centriste del Pd, indebolendo le posizioni di chi quel dialogo lo aveva voluto e costruito, favorendo dunque il riavvicinamento con la galassia centrista e liberale. Inutile dire che c’era chi non aspettava altro, l’occasione migliore per marginalizzare definitivamente il Movimento, peraltro senza essere obbligati a dare garanzie neanche a Luigi Di Maio, la cui scissione era stata salutata con grande favore proprio come “elemento di stabilizzazione” del sistema draghiano. I sondaggi, in fondo, dicono tutti la stessa cosa: si perde comunque e con chiunque.
In questo contesto, quella di un'eventuale coalizione centrista che comprenda il Pd, Calenda e i transfughi di Forza Italia è prima di tutto una manovra politica molto ambiziosa: mettere all’angolo Conte e svuotare il bacino elettorale del M5s con la logica del voto utile a fermare le destre, inglobare Di Maio soltanto dopo averlo portato su posizioni moderate e conservatrici, magari affiancandogli un tutor come Beppe Sala. A conti fatti, la spartizione del partito del 32,7% di neanche cinque anni fa.
Il terzo polo di Giuseppe Conte
La necessità di uscire da questa scomoda posizione ha generato lunghissime discussioni in casa grillina. La prospettiva di andare da soli, caldeggiata dagli stessi che avevano voluto lo strappo con Draghi e benedetta dallo stesso Beppe Grillo, non ha mai convinto del tutto Giuseppe Conte, che appunto ha cercato fino all’ultimo un dialogo con Letta. Il problema è prima di tutto di natura pratica: le simulazioni e i sondaggi indicano che lo spazio per operazioni di questo tipo, in una campagna elettorale così polarizzata, è davvero minimo. Si rischia davvero di restare incastrati, banalmente di eleggere una trentina di deputati e una decina di senatori (con tutto ciò che comporta in termini di “tenuta” del partito e dei parlamentari per gli ultimi mesi di questa legislatura). Anche dal punto di vista politico, poi, l’idea di ripristinare il “né di destra né di sinistra” e tutta la linea comunicativa ante 2018 (ma forse anche 2013) non entusiasma particolarmente: non si possono ignorare due governi, il riposizionamento sui temi impostato solo qualche mese fa da Conte e, soprattutto, il cambiamento della classe dirigente. Avresti di nuovo Di Battista, forse, ma nella migliore delle ipotesi sarebbe un ricominciare dall'inizio.
Dunque, che fare?
Il progetto di Conte, è il ragionamento che sta prevalendo in queste ore, prevedeva la trasformazione del M5s in una forza politica di chiara impronta ecologista e radicale, che si caratterizzasse fortemente per la vicinanza alle classi sociali svantaggiate o escluse dai processi decisionali e gestionali. Originariamente, questa forza avrebbe dovuto fungere da stampella del Pd, in un campo largo che potesse recuperare in questo modo anche il voto dei disillusi. Se il Pd non vuole o non può più starci, però, non necessariamente va cancellato l’intero percorso. Si va avanti lo stesso, insomma, da soli o con chiunque condivida questa piattaforma. Ed è quello che Conte intende quando parla di “campo della giustizia sociale” aperto a “tutti coloro che credono nella vera transizione ecologica”. Il piano, per quanto emergenziale, è questo: stilare un’agenda nel solco del radicalismo ecologista e della giustizia sociale, intorno alla quale aggregare altre formazioni o esperienze.
Il problema è come tradurre questo percorso in un cartello elettorale che porti voti, diciamoci la verità. Qui le cose si complicano davvero tanto. Perché evidentemente una proposta politica di questo tipo costringe il Movimento a guardare esclusivamente a sinistra, in una zona da sempre affollata, poco consistente dal punto di vista elettorale e molto esigente sul piano della coerenza programmatica (non il massimo per chi ha governato con Salvini ministro dell’Interno).
È noto che ci siano interlocuzioni costanti con l’alleanza rosso-verde di Fratoianni, Evi e Bonelli. Il soggetto politico nato dall’incontro di Europa Verde e Sinistra Italiana, però, continua a immaginare che il posto dei Cinque stelle sia all’interno del campo del centrosinistra, secondo un modello (no Calenda e transfughi di Forza Italia) che il Pd sembra aver bocciato definitivamente. Vedremo cosa accadrà nei prossimi giorni, la sensazione è che serva un tempo che non c'è.
Chi invece è in attesa di una chiamata di Conte è Luigi de Magistris, che con la sua Unione popolare non avrebbe problemi a confluire nel “campo giusto” e impostare una durissima campagna elettorale contro centrodestra e centrosinistra. I contiani però frenano, perché abbracciare il cartello che comprende tra gli altri Dema, Rifondazione e Potere al popolo, significherebbe diventare parte integrante di una “cosa rossa” che potrebbe allontanare quello zoccolo duro grillino che non viene esattamente da sinistra. Nella lettura dei consiglieri di Conte, poi, si tratterebbe di una svolta problematica, considerando le distanze di formazione, provenienza e orientamento delle due classi dirigenti (preoccupano le valutazioni su Ucraina e gestione della pandemia, per dirla in poche parole).
In mezzo, la discussione sul doppio mandato, la scelta delle candidature e la definizione dei ruoli di Beppe Grillo e Alessandro Di Battista. Non robetta, ecco.