Alle 03:36 del 24 agosto 2016 una scossa di terremoto magnitudo 6.0 colpisce l’Italia centrale: l’epicentro è tra i comuni di Accumoli (in provincia di Rieti) e Arquata del Tronto (Ascoli Piceno), ma il sisma viene avvertito in un raggio molto ampio, che raggiunge Roma e Napoli. La scossa viene seguita da una lunga serie di repliche, anche di elevata intensità: in particolare, alle 4:33 a Norcia si registra una magnitudo di 5,4.
I danni sono ingenti, interi comuni sono rasi al suolo, alcune frazioni restano isolate, le strade sono per larga parte inutilizzabili. Le vittime saranno 299, i feriti quasi 400, con i soccorritori che lavorano senza sosta per giorni per estrarre dalle macerie centinaia di persone.
La scossa del 24 agosto è un incubo che gli abitanti del Centro Italia rivivranno continuamente nei giorni e nei mesi a seguire. Il 26 agosto Amatrice è l’epicentro di un evento di magnitudo 4,8 che aggrava la situazione del Comune laziale, che pagherà il tributo maggiore in termini di morti e feriti. Il 26 ottobre tre scosse ravvicinate, di magnitudo tra 4,5 e 5,9, colpiscono la zona nei pressi di Castelsantangelo sul Nera. Il 30 ottobre Norcia è l’epicentro della scossa più violenta: un evento di magnitudo 6,5 che viene percepito addirittura in Austria, alza il livello dei fiumi e causa una spaccatura nel Monte Vettore. Infine, il 18 gennaio 2017, si registrano una serie di scosse di magnitudo 5, che probabilmente determinano lo staccarsi di una valanga che colpisce l’Hotel Rigopiano a Farindola, causando 29 morti e 11 feriti. Sono ore drammatiche, durante le quali i media trasmettono la cronaca delle disperate operazioni di salvataggio, effettuate in condizioni proibitive tra mille difficoltà.
Come si sono mossi i Governi
Il 24 agosto a Palazzo Chigi c’è Matteo Renzi e a capo della Protezione Civile c’è Fabrizio Curcio. Il primo atto formale è la deliberazione dello stato di emergenza per Abruzzo, Lazio, Marche e Umbria, formalizzata dal Consiglio dei ministri del 25 agosto, con uno stanziamento iniziale di 50 milioni di euro.
La volontà del Governo è quella di muoversi lungo un doppio binario: da una parte le misure per superare l’emergenza, assistere gli sfollati ed avviare la ricostruzione delle aree colpite, dall’altra un piano per la messa in sicurezza del territorio nazionale (il progetto Casa Italia, su cui ritorneremo). La ricostruzione viene affidata a una struttura, capeggiata dal Commissario straordinario Vasco Errani, assistito da 4 vice-commissari (i presidenti delle Regioni colpite Zingaretti, Ceriscioli, D’Alfonso e Marini) e supportato dai comitati istituzionali in cui trovano posto anche i sindaci dei comuni colpiti. Tutti gli atti dovranno passare per un organo comune, l’ufficio speciale per la ricostruzione post sisma, che sul territorio si articola in 4 uffici regionali.
Tra molte polemiche, viene individuato il “cratere”, ovvero la porzione di territorio che si giudica colpita più duramente dal sisma: solo successivamente il Governo “amplierà” l’area interessata dagli interventi e garantirà il risarcimento anche per gli edifici collocati all’esterno del cratere che risultino danneggiati dalle scosse.
Il primo intervento organico è il decreto legge numero 189 / 2016 – Interventi urgenti in favore delle popolazioni colpite dagli eventi sismici del 2016) -, che sarà convertito in legge il 15 dicembre del 2016. La dotazione del fondo per la ricostruzione è di 200 milioni di euro per il 2016.
Passano due settimane e il 26 ottobre ricominciano le scosse: il Governo stanzia subito 40 milioni di euro e ulteriori 40 dopo le violentissime repliche del 30 ottobre per gli interventi urgenti; a inizio novembre il Cdm approva un nuovo decreto, volto a garantire alla Protezione Civile la capacità di operare con rapidità.
Si arriva così all’11 dicembre, quando viene approvata la legge di bilancio 2017, che occupa un posto centrale nei piani dell’esecutivo. È l’ultimo atto del Governo guidato da Matteo Renzi, che sarà sostituito da Paolo Gentiloni, e quello più rilevante, anche simbolicamente.
Lo stanziamento complessivo per gli interventi per la riparazione, la ricostruzione, l’assistenza alla popolazione e la ripresa economica è di 7,1 miliardi di euro, di cui però solo 300 milioni per il 2017. Nel dettaglio, infatti:
- 6,1 miliardi di euro (100 milioni di euro per l'anno 2017 e 200 milioni di euro annui dall'anno 2018 all'anno 2047) per la concessione del credito d'imposta maturato in relazione all'accesso ai finanziamenti agevolati, di durata venticinquennale, per la ricostruzione privata (di cui all'art. 5 del D.L. 189/2016);
- 1 miliardo di euro (200 milioni di euro per l'anno 2017, 300 milioni di euro per l'anno 2018, 350 milioni di euro per l'anno 2019 e 150 milioni di euro per l'anno 2020) per la concessione dei contributi per la ricostruzione pubblica (di cui all'art. 14 del D.L. 189/2016).
A tali misure si affianca il “sisma bonus”, ovvero la detrazione per gli interventi di ristrutturazione e messa in sicurezza sismica degli edifici. La detrazione si applica fino al 50% per gli immobili adibiti ad abitazione o attività produttiva (per spese complessive non superiori a 96mila euro), ma può arrivare al 70% e all’80% nel caso in cui dagli interventi derivi una diminuzione di una o due classi di rischio sismico. Fino al 31 dicembre 2021 si può usufruire delle agevolazioni anche per gli edifici ubicati in zona sismica 3.
Sul piano dell'intervento immediato, dunque, c'è poco da rimproverare agli esecutivi che hanno affrontato le emergenze, come vi abbiamo spiegato nel dettaglio in questo approfondimento. Così come lo sforzo di Protezione Civile, Vigili del fuoco e, in generale, dell'intero apparato di soccorso e assistenza, resterà commovente. Altra cosa è la gestione del "post – emergenza".
Cosa è andato storto
La rimozione delle macerie
“A un anno dal sisma che il 24 agosto ha colpito Marche, Lazio, Umbria e Abruzzo e a nove mesi dalle scosse devastanti di fine ottobre è stato rimosso solo l’8,57% delle macerie; circa 227.500 tonnellate dei 2.657.000 stimati dalle quattro Regioni […] Complessivamente rimangono da rimuovere oltre 2.400.000 tonnellate derivanti per la stragrande maggioranza dalle attività di demolizione parziale e totale dei fabbricati che permetteranno di ridimensionare le zone rosse. Sono macerie derivanti da edifici pubblici e da edifici privati pericolanti, la cui rimozione è propedeutica all’avvio della ricostruzione materiale e della rinascita delle comunità colpite. Aspettano di esserne liberati oltre 60 Comuni, con le loro numerose frazioni.”
Sono i dati diffusi da Legambiente in un report che prova a evidenziare anche l’assenza di un vero e proprio coordinamento tra le Regioni, che ha portato a diverse interpretazioni delle norme e delle ordinanze che si sono succedute.
La rimozione delle macerie resta uno dei problemi maggiori, oltre che il riscontro più immediato dei problemi della macchina burocratico/amministrativa. Come a L’Aquila (dove però la ratio della ricostruzione è stata/è diversa), il rischio è che passino anni prima di assistere alla rimozione completa delle macerie, precondizione della ricostruzione.
Le cause dei ritardi sono molte e non sempre di semplice risoluzione. A partire dal completamento delle demolizioni, che spesso sono affidate ai singoli Comuni, con ritardi derivanti da tempi tecnici (affidi, appalti) e da errori degli uffici amministrativi. La quasi totalità delle macerie è costituita poi da materiali inerti, che necessitano di piani di recupero o di smaltimento non di semplice attuazione. Spesso mancano le aree preposte allo stoccaggio dei materiali e il sistema di trasporto relativo, mentre non è ancora chiarissimo, a un anno di distanza dal sisma, né quale e quanta parte del materiale possa essere reimpiegato per la ricostruzione, né che fine debbano fare le macerie che deriveranno dalle demolizioni private. Spiega ancora Legambiente: “Il loro riutilizzo è richiamato dalle norme nazionali e dai piani regionali ma di fatto nessuna delle quattro Regioni si è ancora dotata di una programmazione che specifichi la filiera del recupero, le caratteristiche tecniche per garantire la qualità dei materiali da riutilizzare, le modifiche ai capitolati necessarie per prevedere il loro utilizzo, norme premianti affinché tali materiali trovino effettivo mercato”.
Le casette per gli sfollati
La scelta del Governo è quella di virare sulle SAE (soluzioni abitative in emergenza), ovvero delle casette in legno “decorose”, destinate a coloro che avevano una abitazione in “zona rossa oppure inagibile o inagibile per rischio esterno”, ma anche a coloro che fossero in attesa di una verifica di agibilità. Le richieste di SAE sono state oltre 3700 ma, a un anno dal sisma, ne sono state consegnate meno di 400.
Ci sono diversi aspetti che non convincono, oltre alle tempistiche di consegna. Pochi mesi dopo il sisma del 24 agosto, Fabrizio Gatti su L’Espresso si mostrava perplesso sulle procedure adottate: “Il dopo-terremoto 2016 ha già imboccato la strada lastricata d’oro (per pochi imprenditori) che aveva guidato l’emergenza a L’Aquila nel 2009: cioè la via dello spreco, già pesantemente sanzionata dalla Commissione di controllo del Parlamento europeo sui bilanci Ue e dalla Corte dei conti europea (Special report 24/2012), dopo che l’Unione ci aveva rimesso svariate centinaia di milioni”.
Sotto la lente d’ingrandimento i costi delle casette: “Il prezzo al metro quadro per i moduli abitativi provvisori che la Protezione civile sborserà è infatti di 1.075 euro (contratto Consip del 25 maggio 2016 per “fornitura, trasporto, montaggio di Sae – soluzioni abitative in emergenza”). Il costo supera il valore di tutti i tipi di edifici nuovi e in muratura nella provincia di Rieti e nella zona di Amatrice prima del terremoto: 990 euro al metro quadrato un appartamento, 840 una casa di edilizia economica, 1.000 una villa. Quotazioni immobiliari che nei paesi subito al di fuori dell’area del disastro scendono a 790 euro al metro quadro per un appartamento, 740 per una casa economica, 840 per una villa in ottime condizioni (dati Agenzia del territorio)”.
L’appalto, gestito da Consip, è finito al CNS e in alcune zone i lavori sono stati svolti dalla Cosp di Terni, azienda che in passato si era occupata essenzialmente di raccolta rifiuti, pulizie e disinfestazioni.
Poi la questione “burocratica”, ben riassunta da Alessandro Chiappanuvoli su Internazionale, in un lungo reportage in cui individua ben undici passaggi burocratici per la consegna delle SAE: dalle prime verifiche sugli aventi diritti all’individuazione delle aree per le SAE, passando per gli espropri dei terreni, le fasi di progettazione e controllo successive. Il tutto con un rimpallo di competenze fra Regioni, Comuni, soprintendenze e commissario straordinario.
I tempi si dilatano, in maniera imbarazzante:
Ma i conti non tornano in ogni caso. Da contratto, le ditte devono consegnare il 50 per cento di ogni area sae “entro e non oltre 30 giorni naturali e consecutivi (compresi i festivi)” e il resto entro 60 giorni. Anche se a questi 60 giorni aggiungiamo i 90 previsti per le urbanizzazioni, non si arriva comunque ai sette mesi stimati al principio, a meno che per l’urbanizzazione finale, cioè per la cura dei giardini, non siano previsti altri 60 giorni.
[…] Il tentativo di accorciare i tempi e dare il prima possibile i poteri alle istituzioni locali, nonché le forniture di beni e servizi tramite gara d’appalto, non ha prodotto i risultati sperati. Il processo è stato lento e macchinoso, e ha deresponsabilizzato i soggetti coinvolti.
La situazione, al momento, è tutto meno che incoraggiante, come mostra la mappa interattiva della Protezione Civile:
Il contributo di autonoma sistemazione
Oltre alle casette, il Governo ha predisposto il meccanismo per “i contributi per l’autonoma sistemazione”, che sarebbero dovuti essere assegnati dai comuni “alle famiglie colpite dal sisma, la cui abitazione principale, abituale e continuativa sia stata distrutta in tutto o in parte”. Si tratta di una somma fino a 900 euro (400 euro al massimo per ogni componente del nucleo familiare) la cui gestione ha generato non poche polemiche.
Come vi abbiamo spiegato in questo approfondimento, “lo scopo del CAS era quello di garantire ai soggetti che ne avevano necessità un sostegno per “auto-organizzarsi” qualora avessero rifiutato la proposta del Governo di trasferirsi negli hotel della costa. In molti hanno optato per questa opzione, soprattutto coloro che non volevano allontanarsi troppo dai propri luoghi di lavoro”. Anche in questo caso, però, la norma che lega il CAS allo stato di emergenza, rischia di causare un cortocircuito amministrativo:
Nonostante la ricostruzione non sia neanche partita e la consegna dei moduli abitativi provvisori sia in enorme ritardo, dunque, il rischio concreto è che migliaia di persone a partire da settembre prossimo non abbiano né un tetto sulle testa né un contributo economico per sostenere il pagamento di un affitto: “Il problema – continua l’avvocato di AlterEgo – è che il CAS non viene specificatamente disciplinato dal decreto terremoto. L’unica norma che fissa la disciplina è prevista dall’ordinanza 388 della Protezione Civile, che per l’appunto fissa la scadenza del contributo alla fine dello stato di emergenza, il 19 agosto”.
L'Italia antisismica e il piano Casa Italia
Il 25 agosto il Presidente del Consiglio Matteo Renzi lancia il piano “Casa Italia”, per la messa in sicurezza dell’intero territorio nazionale. È una idea importante: non solo la ricostruzione delle aree colpite dalla calamità naturale, ma la prevenzione attiva nel restante territorio italiano. A capo della struttura di missione viene chiamato come project manager Giovanni Azzone, rettore del Politecnico di Milano. Pochi mesi dopo, Renzi lancia l’idea di rendere Casa Italia un Dipartimento della Presidenza del Consiglio, impegno che sarà portato a termine da Paolo Gentiloni a marzo.
Come ricorda Il Sole 24 ore, a giugno gli esperti della struttura presentano il “Rapporto sulla promozione della sicurezza dai rischi naturali del patrimonio abitativo”, che “quantifica in 25 miliardi lo stanziamento necessario solo per finanziare la riqualificazione antisismica degli edifici in muratura dei 648 Comuni a maggior rischio attraverso il sisma bonus per i lavori di adeguamento antisismico introdotto dall’ultima legge di Bilancio”; ma non solo, perché se “si volesse intervenire su tutti gli edifici in calcestruzzo armato costruiti prima dell’entrata in vigore delle norme antisismiche servirebbero 46,4 miliardi”, mentre per “mettere in sicurezza le case di tutti i Comuni italiani, infine, costerebbe addirittura 850 miliardi”.
Il mandato di Azzone è scaduto e ora la palla è in mano a Roberto Marino, capo dipartimento, che dovrà capire come conciliare queste cifre con quelle effettivamente messe a disposizione dal Governo. Perché, appunto, una cosa è parlare di “mettere in sicurezza il Paese”, un’altra è farlo davvero, scegliendo di dirottarvi risorse che, forse, non ci sono nemmeno.