Qualche mese fa era bastato che un gruppo di parlamentari, fra cui Orfini e Fratoianni, provasse soltanto a inserire il concetto di patrimoniale sulle grandi ricchezze nella discussione della legge di bilancio per scatenare una specie di sollevazione al grido di “vogliono mettere le mani nelle tasche degli italiani”. Poco importava che la proposta prevedesse in realtà un prelievo dello 0,2% per i patrimoni tra 500mila e 1 milione di euro, per arrivare allo 0,5% fino a 5 milioni di euro, all’1% fino a 50 milioni e al 3% per quelli superiori al miliardo di euro: l’assalto della "sinistra che ama le tasse" fu respinto senza perdite, anche grazie alla pavidità delle forze di governo e alle classiche levate di scudi di editorialisti e analisti dei media tradizionali. Mentre nel resto del mondo il dibattito sulla tassazione dei super-ricchi, dell'1% che possiede la quasi totalità delle risorse, è un tema serio e dibattuto (da Biden all'FMI, passando per gli stessi Paperoni dell'economia mondiale), da noi basta solo accennare a una qualunque proposta redistributiva per scatenare l'inferno e agitare i sonni non tanto delle elite, quanto dell'agguerritissimo fan club che pontifica quotidianamente senza contraddittorio da giornali e tv.
Come allora, stiamo assistendo di nuovo in questi giorni al montare della marea dell’indignazione nei confronti di quelli che “vogliono mettere le mani nelle tasche degli italiani” e, peggio ancora, vogliono mettere tasse anche sulla morte. Stavolta a scatenare reazioni scomposte e scandalizzate è stato Enrico Letta, colpevole di aver proposto di aumentare la tassa di successione al fine di reperire risorse da indirizzare ai giovani che partono da condizioni familiari svantaggiate. Non esattamente un esproprio proletario, tra l’altro, visto che si tratterebbe di aumentare progressivamente l’aliquota sui patrimoni ereditati che superano il milione di euro per applicare l’aliquota massima a quelli oltre i 5 milioni di euro. Operazione al termine della quale la tassa di successione applicata in Italia resterebbe comunque tra le più basse della zona Euro (ora ha un’aliquota massima del 4%) e sempre distante da quella che si pagava fino alla riforma del governo Berlusconi nel 2001.
Sulla proposta di Letta è lecito nutrire dubbi e perplessità. Lo hanno fatto in molti, sottolineando come le risorse ottenute sarebbero probabilmente inferiori alla spesa prevista per la "dote" ai giovani, oppure mettendo in discussione la scelta di utilizzare nuovamente la pratica dei bonus, invece di investire in piani e riforme strutturali. O ancora, alcuni hanno spiegato come, dato il livello attuale della tassazione, una simile proposta non può che essere inserita in un piano organico di riforma fiscale. Obiezioni più che legittime, che certamente meriterebbero un dibattito più serio di quello generatosi in questi giorni.
La tassa di successione come nuovo spauracchio
Il meccanismo lo conosciamo, è sempre lo stesso. Ogni proposta che colpisce privilegi e rendite di posizione viene distorta, decontestualizzata e inserita nel frame comunicativo dello Stato predatore che dissangua i propri cittadini. Ogni volta che si propone di utilizzare la leva della tassazione per intervenire su un sistema squilibrato, che determina disuguaglianza e approfondisce il solco fra classi sociali e generazionali, si ricorre al solito trucchetto dell'evidenziare gli sprechi e le disfunzioni della macchina dello Stato. Si comincia a parlare di (una distorta concezione di) meritocrazia, si adombra il furto ai danni di chi "si spacca la schiena dalla mattina alla sera", si ricorda che il livello complessivo di tassazione in Italia è già tra i più alti al mondo, si utilizzano casi limite per delegittimare posizioni complesse. Immediatamente si agita lo spettro della fuga di capitali e del conseguente tracollo dell'economia. Un sistema rodato, che entra in azione anche di fronte a una proposta che ha come premessa l'idea che in Italia il reddito sia già eccessivamente tassato.
Ammuina, direbbero a Napoli.
Ogni tanto, però, bisognerebbe stare sul merito, o almeno sul senso della proposta. La verità è che l’abolizione della tassa di successione fu un errore clamoroso e la sua reintroduzione un’occasione persa. Perché aumentare la tassazione sulle ricchezze ereditate significa fare una scelta in direzione dell’equità e della redistribuzione, favorendo anche la mobilità intergenerazionale. Lo spiegava anche Warren Buffet, certamente non uno statalista, in un’intervista al NYT: “Senza la tassa di successione, si ha di fatto un’aristocrazia di ricchezza, che significa tramandare di generazione in generazione il potere di gestire le risorse di una nazione secondo criteri ereditari, non di merito”. È il punto centrale: ridurre le disuguaglianze e livellare il più possibile il gap intergenerazionale quanto a condizioni “di partenza”, ulteriormente aumentato con la pandemia.
Si tratterebbe di una goccia nel mare, siamo d'accordo, perché le disuguaglianze sono ben più profonde e siamo davvero lontanissimi da una vera parità di opportunità fra giovani provenienti da classi sociali diverse. Ma è irrinunciabile cominciare ad affrontare il tema della redistribuzione anche in Italia, soprattutto per aumentare la consapevolezza dei cittadini sulla portata della questione. Nessuno vuole mettere le mani nelle tasche dei piccoli risparmiatori. Nessuno vuole togliere alla classe media il frutto di anni di sacrifici e di duro lavoro. Questo però è un Paese profondamente ingiusto, dove cresce sempre di più la forbice fra chi ha troppo e chi nulla, anche in termini di opportunità, di idea di futuro. È un Paese per ricchi, per figli di ricchi e per chi ha rendite o posizioni di privilegio. Cominciare a cambiarlo partendo dal tassare maggiormente la ricchezza ereditata, almeno in linea col resto d'Europa, è un modo per invertire la rotta e immaginare un domani migliore per tutti, non per pochi.
Nel momento in cui la teoria del trickle-down, lo sgocciolamento economico dall'alto verso il basso, ovvero l'idea che l'enorme arricchimento di pochi abbia effetti positivi sul resto della comunità, viene messa in discussione in modo radicale, dovremmo smetterla, per citare Rothkopf, di intendere la casta dei ricchi e dei potenti come se davvero avesse sconfitto lo spazio-tempo e finirla di essere contenti del nostro ruolo di "beneficiari della globalizzazione" che vedono sgocciolare sul loro orticello solo i residui degli enormi processi di accumulazione delle ricchezze e, appunto, di trasferimento da generazione in generazione.