Se è vero che il Festival di Sanremo è la messa laica di un’intera nazione, l’oracolo dentro cui leggere dove va l’Italia, ecco, un po’ siamo preoccupati.
Perché sì, è stato un festival che ha esaltato la diversità – anzi, meglio: l’unicità degli individui – come da definizione di Drusilla Foer – un urlo liberatorio contro le convenzioni e i ruoli precostituiti, dai look alle canzoni, ognuna delle quali (o quasi) ha declinato l’amore nelle mille sfumature che esso può assumere. Ma se dobbiamo dirla tutta, in mezzo a tutta questa attenzione per la dimensione privata e per l’individualità, forse abbiamo perso di vista qualcosa di altrettanto grande, che in questi due anni di pandemia ci è stato di fondamentale aiuto e che ora tutto sembra andare per il meglio, forse sarebbe stato opportuno ricordare.
Parliamo degli altri, dell’empatia verso chi soffre, della gratitudine verso chi si è sacrificato per noi, della dimensione comunitaria del nostro vivere. Parliamo di società e di politica, in altre parole, le vere grandi assenti non giustificate di questo festival. Piccole notazioni d’obbligo, che ogni regola ha le sue eccezioni: una si chiama Massimo Ranieri, che ha portato sul palco dell’Ariston la tragedia dei migranti, ci ha vinto il premio della critica e ha ricordato che lo siamo stati tutti pure noi. E Giovanni Truppi, che ha scelto “Nella mia ora di libertà” di Fabrizio De André e la condizione dei carcerati per la serata delle cover. Eccezioni, per l’appunto: nessuna parola per chi ha perso il lavoro durante la pandemia, nessuna per i sanitari e per i loro due anni in trincea, nessuna per il sacrificio collettivo che ci sta permettendo di uscirne, varianti permettendo. Nessuna per tutto quel pezzo di umanità che è rimasto senza cure e senza vaccini.
Nel festival dell’amore non c’è spazio per tutto questo. E l’unico accenno alla pandemia rimanda all’invidia sociale dei virologi in cerca di celebrità, cantata da Checco Zalone, mentre solo lo scorso anno, proprio a Sanremo, celebravamo le ricercatrici dello Spallanzani che avevano isolato il genoma del virus, mentre l’anno scorso avevamo applaudito sul palco Alessia Bonari, l’infermiera simbolo del lavoro dei sanitari. Volti e nomi che valgono molto di più – e che forse si sarebbero meritati un po’ più – di Oronzo Carrisi. Anche perché se quest'anno il Festival non si è svolto in un teatro deserto qualche merito, eufemismo, ce l'hanno pure loro.
Può essere che ci stiamo sbagliando, ovviamente. Che quelle del festival siano solo canzonette, e che leggere un Paese tra le loro righe sia una sovrainterpretazione. Ma se davvero è così che usciamo dalla pandemia, incapaci di guardare al di là di noi stessi, di riconoscere il valore dell’altro, di approfittare di un momento in cui tutta l’Italia ci guarda per accendere la luce sulla sua sofferenza, di dire grazie e di chiedere scusa, ne usciamo più diversi e più unici, ma sicuramente non ne usciamo migliori.