Non c’è pace nel Movimento 5 Stelle, che continua da mesi ad avvitarsi in un complicato intreccio tra ricerca di una propria identità politica e responsabilità di governo. Del resto, non è semplice gestire la più ampia rappresentanza parlamentare senza una guida autorevole e riconosciuta, peraltro con la consapevolezza che ben oltre la metà degli attuali deputati e senatori non hanno la benché minima possibilità di essere rieletti nella prossima legislatura. Lo strappo di Renzi ha mostrato al Paese la debolezza di questo Movimento, ma paradossalmente avrebbe anche creato le condizioni ideali per un riposizionamento politico dei 5 Stelle, chiamati a scegliere tra definitiva istituzionalizzazione e trasformazione in forza progressista e ambientalista (alleata strutturalmente col PD) o deresponsabilizzazione nella gestione della crisi, che equivarrebbe a posizionarsi all'opposizione accanto a Giorgia Meloni.
Il problema è che nessuna delle due corse è gratis, come stanno capendo in queste ore coloro che hanno spinto affinché la decisione ultima sul sostegno al tentativo di Mario Draghi la prendessero i militanti con un voto sulla piattaforma Rousseau. Da tempo si parla di un Movimento diviso in correnti e fazioni, sempre pronto a spaccarsi, dividersi, sciogliersi e rifondarsi. Con l’esclusione di singole fuoriuscite (tra espulsioni, scelte personali o conversioni estemporanee), però, i gruppi parlamentari hanno sostanzialmente retto, malgrado le continue e rilevanti giravolte decise dai dirigenti: dal “mai alleati dei partiti” al “va bene qualunque cosa pur di attuare il programma”; per passare poi al “mai con Salvini”, “sì a Salvini” e ancora al “mai più Salvini” e ora di nuovo a “Salvini partner strategico”; senza contare che non sono passati neanche 3 anni da “mai col partito di Bibbiano” all’alleanza strutturale col PD o dal referendum per l’uscita dall’euro al “respiro europeista” come condizione essenziale di ogni piattaforma di governo. Insomma, vista la quantità di capriole nella linea politica, forse ci si dovrebbe meravigliare di come i gruppi non siano implosi prima; evidentemente c’è sempre stato un collante a evitare scissioni e strappi: prima Di Maio, poi Conte, poi semplicemente la paura di perdere il seggio in caso di elezioni anticipate. Ora che ritornare alle urne non è un’opzione (e che le regole sul secondo mandato difficilmente cambieranno), sono in molti a pensare che non ci saranno conseguenze nel caso di riposizionamenti o di voti non coerenti con la linea imposta dai vertici.
La questione, se possibile, è ancora più chiara per quanto riguarda la base elettorale. La ragione per ingoiare rospi su rospi è stata dapprima "realizzare il programma del Movimento", poi "cancellare Salvini dal governo", infine "sostenere Giuseppe Conte costi quel che costi". Ora si tratta di accettare di entrare nel governo, certo per non regalare a Salvini il potere di decidere quando e come nascerà, vivrà e cadrà la creatura voluta di Mattarella, ma soprattutto per salvaguardare poche poltrone e quel minimo di agibilità politica rimasta al leader in pectore della coalizione Giuseppe Conte.
Ma come farsi andar bene l'ascesa a Palazzo Chigi di colui che rappresenta tutto ciò contro cui il Movimento si è sempre battuto? Responsabilità è parola nobile, ma l'abuso che ne hanno fatto in questi mesi i maggiorenti grillini l'ha svuotata di senso e significato. La strategia scelta per spingere il Sì su Rousseau era inizialmente quella di puntare su pochi e semplici concetti: la rivoluzione green, la presenza di politici di primo piano del M5s al governo, il no di Draghi al MES e il sì alla prosecuzione del reddito di cittadinanza. Troppo poco per convincere una quota consistente di militanti, probabilmente. Troppo rischioso affidarsi alla sorte, considerando che le mosse di Renzi e Salvini (oltre che la volontà di Conte) hanno sostanzialmente messo all'angolo i 5 Stelle e che un eventuale No a Draghi significherebbe non solo l'esclusione dalla gestione dei fondi del NextGenUE, ma anche il cambiamento degli equilibri interni e una sconfitta personale anche per il garante Beppe Grillo.
Costi quel che costi, ma deve vincere il Sì. E si può ricorrere a qualunque arma. Non solo dipingendo Draghi come una specie di grillino passato per caso da Banca d'Italia e BCE, non solo riscoprendo la radicalità degli inizi (oggi Grillo parla di patrimoniale, di reddito di base universale e conflitto d'interessi), non solo dando per certa la presenza nel governo di big del M5s, ma spingendosi a un passo dal falsare l'intera consultazione tramite un quesito che definire capzioso appare riduttivo.
Sei d’accordo che il MoVimento sostenga un governo tecnico-politico: che preveda un super-Ministero della Transizione Ecologica e che difenda i principali risultati raggiunti dal MoVimento, con le altre forze politiche indicate dal presidente incaricato Mario Draghi?
Anche senza scendere nel dettaglio, ci sono diverse cose che non quadrano in un quesito posto in un modo del genere:
- No, non sappiamo ancora se il governo sarà tecnico-politico;
- Super-ministero è abbastanza ridicolo, non sappiamo quali saranno le funzioni, la composizione e la dotazione;
- "Che difenda i risultati raggiunti dal M5s": c'è davvero qualcuno che voterebbe per "non difendere" le conquiste grilline?;
- "Con le altre forze politiche indicate da Draghi": il tentativo di scaricare sul futuro Presidente del Consiglio la responsabilità di fare nuovamente il governo con Salvini e ora anche con Berlusconi è apprezzabile, ma assomiglia a una resa incondizionata.
Non è questione di poco conto, tutt'altro: se c'è la volontà politica di sostenere Draghi, anche semplicemente perché non si ritiene esistano alternative, un gruppo dirigente che si rispetti ci mette la faccia, la rivendica e se ne assume la responsabilità. Trattare i propri militanti come pupazzi non è esattamente quello per cui il Movimento 5 Stelle è nato.