Come vi abbiamo raccontato, il nuovo DPCM, illustrato il 18 ottobre da Giuseppe Conte nel corso di una breve conferenza stampa a Palazzo Chigi, ha avuto una genesi piuttosto complicata. Nei giorni precedenti, infatti, si erano inseguite indiscrezioni e anticipazioni che lasciavano presagire l’implementazione di misure molto restrittive, in particolare per il settore della mobilità e quello dei rapporti intra-familiari, con la possibilità di intervenire anche sulla scuola. Invece, niente di tutto questo. Senza girarci intorno, il Dpcm è una scatola vuota. Non ci sono interventi specifici per tentare di piegare la curva dei contagi, non c’è un inasprimento delle misure di prevenzione. C’è un nuovo richiamo alla responsabilità dei cittadini e una specie di ultimatum ai gestori di palestre e piscine. Poco altro, se si esclude l’ennesimo capitolo della crociata contro la cosiddetta movida, con la previsione di strade e piazze chiuse su decisione dei Sindaci (o forse del prefetto, o forse delle ASL o di tutti e tre, non si capisce ancora).
Si è discusso molto in queste ore delle non-scelte del Governo, che per giunta arrivano in un contesto di grande preoccupazione non solo per i dati del contagio, ma anche per quelli relativi a ospedalizzazioni, terapie intensive e decessi. Così come molto si è dibattuto sulle divisioni interne all’esecutivo e alle Regioni circa l’approccio da tenere in queste prime settimane di seconda ondata. Una delle questioni irrisolte è, a mio avviso, proprio la più dirimente: perché un governo che si è sempre mosso con estrema prudenza sembra sposare un approccio riduzionista rispetto alla situazione attuale? Dopo essere stati fra i più accorti nell’allentare le restrizioni della prima ondata ripetendo il mantra del “prima la salute dei cittadini, poi il resto”, su quali basi Conte e i suoi consiglieri hanno impostato questo “cambio di strategia per tutelare salute ed economia”, come detto in conferenza stampa?
La linea NIENTE PANICO
La posizione ufficiale è ricalcata sull'orientamento espresso recentemente dal Presidente dell'Istituto Superiore di Sanità Franco Locatelli, secondo cui non siamo in presenza di una crescita esponenziale degli indicatori e al momento il Paese non è né in una situazione di panico né di allarme, anche perché la stragrande maggioranza dei contagiati è asintomatica. Conte ripete da giorni un concetto associato a tale interpretazione: vanno adottate misure adeguate e proporzionali, anche per non turbare la tranquillità dell'opinione pubblica e non ottenere una sorta di rigetto delle indicazioni date dalle autorità. In parole povere, il Governo ritiene che non sussistano le condizioni per un irrigidimento delle norme, anche alla luce degli orientamenti espressi dalle autorità sanitarie e dai consiglieri scientifici. Così, la ministra Azzolina si trincera dietro i dati dei contagi riferibili ai focolai che si sono sviluppati nelle scuole (malgrado non ci sia unanimità tra gli studiosi e nelle simulazioni di aprile del CTS l'apertura delle scuole fosse considerata un acceleratore di contagi); la ministra De Micheli cita analisi secondo cui al momento la capienza dei mezzi pubblici è solo del 75% e dunque saremmo in presenza di inganni percettivi dei cittadini (nonostante il CTS avesse parlato di "elevata criticità" solo poche ore prima del varo del DPCM); l'assenza di evidenze incontrovertibili sulla pericolosità di palestre e piscine porta solo a un avvertimento al rispetto delle regole; la difficoltà nel pensare interventi mirati e scalabili per le singole realtà territoriali produce un compromesso al ribasso per quanto riguarda le misure – base da applicare su scala nazionale. La strategia di fondo, insomma, resta sempre la stessa: ridurre le occasioni di socialità, responsabilizzare ulteriormente i cittadini e insistere sulla pericolosità dei rapporti personali anche, anzi soprattutto, all'interno dei nuclei familiari. Mentre, lentamente, si prova a implementare alcune misure specifiche per i luoghi in cui si ritiene che la trasmissione contagio possa essere più semplice (per inciso, non c'è dubbio che ridurre gli assembramenti o essere più rigorosi su alcuni aspetti della vita notturna possa aiutare, il problema è se questa è l'unica strategia…), ma senza modificare i protocolli e le regole d'ingaggio sui luoghi di lavoro.
"Tutelare salute ed economia"
Il quadro economico ha avuto un peso enorme nel dibattito che ha portato alle scelte di questi giorni, come evidente anche da alcuni passaggi della conferenza stampa del Presidente del Consiglio. Sul tavolo dell’esecutivo sono giunte non solo le proiezioni sul contraccolpo economico che il Paese subirebbe in caso di nuovo lockdown su ampia scala, ma anche schede dettagliate che evidenziavano il costo economico delle chiusure settore per settore. La riflessione si è concentrata su due aspetti specifici: come recuperare il PIL non prodotto e con quali risorse sostenere aziende e famiglie, in caso di ricorso a misure restrittive che impatterebbero su produzione e consumo. Escluso per il momento il ricorso a un ulteriore indebitamento, in attesa di capire che incidenza avrà il Recovery Fund e non potendo / volendo utilizzare le risorse del MES, Conte si è visto costretto a mettere le mani avanti, spiegando di non avere a disposizione un altro bazooka e che non c’è da aspettarsi un’elargizione a pioggia di sussidi. La questione si intreccia con il varo della nuova legge di bilancio (39 miliardi cui il governo “aggiunge” anche i circa 30 miliardi di Cura Italia, agosto e Liquidità), snodo essenziale per provare a far ripartire l’economia ma sempre “date le condizioni attuali”, ovvero con un quadro di crescita che è quello messo nero su banco nella NADEF. Insomma, lo sdoganamento del parallelismo economia-salute ha profonde radici nei numeri e nella situazione contabile del Paese. E in tal senso una sponda arriva anche dai medici, con Filippo Anelli, presidente della federazione degli Ordini dei Medici (Fnomceo), che all’AGI spiega: “Tutti dobbiamo ricordare che la povertà si correla ad un aumento delle malattie e della mortalità, e alla perdita di anni in buona salute. Quindi possiamo dire che il Governo sta cercando di mettere in pratica una tutela della salute al quadrato”.
L'adozione graduale di misure restrittive
Lo spin di queste ore è piuttosto indicativo: abbiamo due settimane per piegare la curva, se i dati dovessero peggiorare non ci sottrarremo all’adozione di nuove misure restrittive. Una linea che suggerisce come la strategia possa essere quella degli aggiustamenti successivi, del monitoraggio costante della curva dei contagi / ricoverati / ICU / decessi e dell’adozione di misure consequenziali. È peraltro un processo già in corso, considerando il numero di decreti, DPCM, circolari e ordinanze che provengono da vari livelli della macchina amministrativa e che si sono susseguiti nelle ultime settimane. Con quale visione e quali obiettivi non è chiarissimo. Poco dopo l’adozione del decreto che imponeva l’obbligatorietà delle mascherine all’aperto, chiedemmo al Presidente del Consiglio se ritenesse sufficiente tale iniziativa per contenere i contagi, ricevendo rassicurazioni sul fatto che si trattasse di un provvedimento “adeguato e proporzionale” che teneva fede a una sorta di “patto con gli italiani” per adottare solo quelle misure strettamente necessarie. Cinque giorni dopo, dunque senza nemmeno aver atteso gli “effetti” delle prime misure, il nuovo Dpcm, che sposta leggermente in avanti l’asse delle restrizioni; sette giorni dopo, è in arrivo una nuova stretta in Campania e Lombardia con l'avallo dell'esecutivo. Quanto costa in termini di morti e contagi la logica del “passo dopo passo verso il lockdown” non lo sappiamo, così come non sappiamo quanto potrebbe costare dal punto di vista economico. Cominciare da aspetti marginali o almeno non determinanti, in ogni caso, è scelta piuttosto peculiare.
Perché il Governo "non ha fatto niente"?
Al Governo non abbiamo dei pazzi incoscienti che hanno scientemente deciso di giocare d'azzardo sulla pelle degli italiani, non dovremmo neanche specificarlo. E va registrata la prudenza con cui Speranza e Conte in particolare hanno gestito la prima fase della pandemia, al netto di errori (alcuni inevitabili, altri meno) e delle pressioni di portatori di interessi e settori produttivi. Però in questa fase siamo di fronte a scelte che, per quanto accompagnate da pareri / consigli del mondo scientifico e accademico, sono eminentemente politiche e dovrebbero comportare una piena assunzione di responsabilità e di rischi. Scelte che possono, anzi devono, essere oggetto di dibattito pubblico.
Il punto è che, considerati i tassi di crescita di tutti i principali indicatori della pandemia, non ci sono poi molti dubbi su quello che dobbiamo aspettarci nei prossimi giorni: l’aumento della pressione sul sistema sanitario, il raggiungimento della soglia critica nelle terapie intensive e la risalita del numero di decessi giornalieri. Un decorso inevitabile, che peraltro fotografa la situazione di almeno 15-20 giorni prima, di fronte al quale il Governo sembra aver opposto poco o nulla. L’idea di attendere ancora giorni (si parla di due settimane) per “vedere come va” appare fallace e rischiosa proprio perché la dinamica della curva dei contagi (e di quella dei decessi) è chiarissima e non suscettibili di cambiamenti. Detto in modo brutale: non può che andare peggio e, se non pieghiamo la curva, non andrà mai meglio. Altre nazioni europee stanno adottando misure molto più severe, anche tassi di crescita simili ai nostri: perché non provare a sfruttare questo piccolo vantaggio prima che i numeri siano fuori controllo?
Se c’è una cosa che dovremmo aver imparato dalla prima ondata è l’impossibilità di scommettere contro una curva esponenziale: per quanto il sistema sanitario possa lavorare al massimo, per quanto si possano ampliare le terapie intensive, raddoppiare i posti letto e trovare migliori protocolli di gestione dei pazienti, non possiamo evitare il collasso del sistema sanitario se non abbattiamo il numero dei contagi, non rintracciamo velocemente e poi isoliamo i casi riducendo la trasmissione del virus. Allo stato attuale, ci siamo già giocati due di queste tre carte: sul contact tracing abbiamo fallito e ora probabilmente non serve più (contagio troppo esteso e pochissimi mezzi e uomini a disposizione per rintracciare le catene di trasmissione); sugli isolamenti siamo praticamente nella stessa situazione di marzo / aprile, con la stragrande maggioranza dei contagiati che trascorre la quarantena in casa o addirittura occupando i posti letto degli ospedali (pochi e mal organizzati i covid hotel).
Dunque, dobbiamo concentrarci su un solo obiettivo: piegare la curva dei contagi, diminuire la circolazione del virus, intervenire immediatamente in Regioni che sembrano già in estrema sofferenza. Non siamo nelle condizioni di marzo e aprile, ci sentiamo ripetere. Non è chiaro perché dovremmo arrivarci, prima di intervenire. È in questo senso che la timidezza delle scelte governative rischia di costare carissimo. Carlo Palermo, segretario dell'Anaao-Assomed, il principale sindacato dei medici ospedalieri, non ha dubbi: “Credo che gli interventi sui bar e sulla movida non saranno sufficienti, servirebbe una impostazione più complessiva senza escludere anche misure più drastiche, come il coprifuoco sul modello francese o anche il lockdown breve proposto da Crisanti per ‘resettare' il sistema”. E proprio il virologo del modello Veneto, spiega perché sia fondamentale abbassare i numeri dei contagi, proprio per evitare un lockdown generalizzato e indefinito: “Convivere col virus significa portarlo al livelli trasmissione bassa in modo da mantenere una qualità di vita decente e portare avanti l'economia. Si fa solo interrompendo le catene di trasmissioni, ma con 10-12.000 casi al giorno nessun sistema è in grado di farlo”. Galli, ancora: “Credo che qualcuno si sia cullato troppo durante l’estate credendo che non avremmo avuto più il problema di questa entità e con queste caratteristiche. Non abbiamo molto tempo per invertire la tendenza e se non lo facciamo in tempi rapidi dovremmo ricorrere a misure più drastiche”.
Ecco, il grosso limite della strategia del governo sembra essere proprio questo: evitare di prendere misure drastiche ora, significa rischiare di dover prendere misure ancora più drastiche fra qualche settimana (anche meno, considerati i tempi di raddoppio degli indicatori legati alla pandemia). La tempestività è fondamentale, al pari della lucidità e dell'incisività delle scelte specifiche. Su scuola, trasporti e lavoro si è scelto di non decidere (probabilmente solo il provvedimento della ministra Dadone va nella giusta direzione), quando sarebbe servita una maggiore assunzione di responsabilità. Su terapie intensive e posti letto si è fatto poco. Sul tracciamento ci si è mossi con lentezza esasperante e tra mille contraddizioni (il caso Immuni è emblematico, l'app con il vuoto intorno).
La sensazione è che stiano venendo alla luce non solo i limiti strutturali del sistema Italia (nascosti dall'enorme sforzo collettivo dei mesi passati), ma anche gli errori di una gestione poco incisiva del periodo estivo. Davvero, ad esempio, la scuola italiana non è in grado di sostenere 15/20 giorni di didattica a distanza? E come è stato possibile non programmare più corse, più interventi e più personale per gestire il trasporto pubblico? E ancora: come siamo arrivati, a 8 mesi dallo scoppio dell'epidemia, a non avere ancora una strategia comune per testing, tracing and treating?