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Opinioni

Stage e lavoro gratis favoriscono i figli di papà

Gli stage non pagati funzionano da veri filtri di classe, mandando avanti solo chi é mantenuto dai genitori. E tutti gli altri?
A cura di Michele Azzu
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Cosa può esserci di più sbagliato che lavorare gratis? Forse qualcosa c’è. Perché che i posti di lavoro non si trovino mandando curriculum, in Italia è cosa nota: è costume diffuso inserire figli, parenti e amici nei posti che contano. Voglio affrontare, invece, un’altra faccia della medaglia: quella di chi fa in maniera del tutto corretta la gavetta per mesi, anni, chi lavora gratis in attesa dell’assunzione.

Esiste un altro problema negli stage e tirocini, oltre agli abusi e al lavoro gratis? Ebbene sì: i tirocini gratis favoriscono i “figli di papà”. È questa, parafrasando, la tesi che Owen Jones avanza sul Guardian, in riferimento al sistema di tirocini gratuiti della Gran Bretagna. Sistema che, come nel resto d’Europa, è ormai largamente utilizzato fino al punto di essere diventato strutturale alle aziende stesse, e all’economia.

Proprio così: stage, tirocini e lavoro gratuito favoriscono i “figli di papà”. In che maniera? Selezionando e portando avanti solo chi può permettersi di lavorare senza essere pagato, in vista di accedere alle posizioni promesse da quel percorso. Mi spiego meglio. Se tramite l’università o un bando di concorso, un giovane accede a uno stage o tirocinio non pagato (o con un rimborso minimo) la speranza è sempre quella di essere poi assunto.

Ma chi può permettersi di lavorare gratis per sei mesi, un anno, passando da uno stage a un altro, dopo tanti anni di studi, in attesa dell’assunzione o di qualcosa di meglio? Chi ha un sostegno da parte della famiglia. Chi, invece, ha bisogno di guadagnare per mantenersi abbandona lo stage, accettando posti di lavoro inferiori alle proprie aspettative e ai propri titoli accademici e competenze. Mentre i “figli di papà” vanno avanti.

Gli ultimi dati Excelsior Unioncamere ci dicono che nel 2012 in Italia sono stati attivati circa 307mila stage. La media di assunzione dopo lo stage è del 9 per cento: meno di un giovane su dieci, e si va dal contratto di apprendistato fino al determinato di un anno (quindi non proprio assunzioni tout court). Gli stage gratuiti sono stati aboliti con le “Linee guida per la regolamentazione dei tirocini” che da regione a regione stabiliscono le cifre minime da pagare. Con una varizione dai 650 euro del nord fino ai 300 euro al sud. Il problema è che queste regole valgono per i tirocini extracurriculari, quelli fatti dopo aver finito l’università, ma non per quelli curriculari.

“La mia settimana di prova è rimasta solo una prova”, racconta Roberta, di Milano, che aveva iniziato uno stage in uno studio da avvocato. Uno stage senza compenso o rimborso spese, poichè “curriculare” (cioè all’interno del percorso di studi). “Avrei dovuto spendere più di 70 euro al mese in viaggi per Milano”, aggiunge. Uno stage in azienda, di solito, prevede anche doversi spostare fuori città. Ci sono le spese di viaggio, l’affitto di una stanza. Doversi comprare l’abito, la borsa, un pc: tutte cose scontate per chi viene da una famiglia con almeno due stipendi e non più di due figli, ma anche cose che a tante altre persone richiedono anni di lavoro.

Non cambia la situazione coi rimborsi spese. 300, 500 euro per un lavoro full time (e se non lo è sulla carta lo è nella prassi) significa riuscire forse a pagare l’affitto di una stanza e le bollette. E quindi, ancora, bisogna chiedere a mamma e papà di far quadrare i conti. Gli stage gratis distorcono il sistema, anche senza bisogno di raccomandazione. Chi è bravo e ha i soldi può permettersi di lavorare gratis, chi è bravo ma ha bisogno di guadagnare per vivere viene escluso.

O rischia di fare la fine di Valentina: “I primi sei mesi avevo un rimborso spese di 500 euro, e sono riuscita a tirare avanti fino alla fine degli studi”, racconta Valentina, di Alghero, che ha 25 anni. “Dopo mi hanno proposto un contratto full-time per il quale avrei percepito quasi lo stesso rimborso del precedente part-time”. Valentina accetta. Ma il giorno dopo la richiamano per dirle che no, dopotutto non hanno bisogno di lei. “Sono tornata a casa senza un soldo, avendo perso la stagione estiva fidandomi della promessa di un contratto”, commenta.

Cosa sarebbe successo se Valentina fosse stata mantenuta dai genitori, anziché dover lavorare? Avrebbe potuto permettersi di rischiare senza dovere poi finire sul lastrico. Stage e tirocini, in questo contesto, diventano veri e propri filtri di classe. Anche per questo il lavoro gratis non è solo eticamente sbagliato, lo è socialmente. Perché alimenta il già pesante divario sociale che esiste nel nostro paese, e le rendite di posizione.

Il governo ha legittimato questa ingiustizia sociale, col programma Garanzia Giovani, che doveva garantire un lavoro retribuito ai giovani fino ai 29 anni. In questo calderone si contano come lavoro anche stage e tirocini. L’unico risultato ottenuto – l’ultimo monitoraggio dice che su circa 400mila iscritti in 9 mesi a 11mila ragazzi è stata fatta una proposta di lavoro – è stato di far pagare coi fondi della Garanzia Giovani i 400-500 euro di rimborsi degli stage. Ma non sarebbe stato meglio far pagare “anche le aziende” in modo da poter portare gli stage a cifre da 800-900 euro? Altrimenti ad andare avanti saranno sempre e solo gli stessi: i figli di papà.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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