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Opinioni

Sono stato a un incontro del PD a Verona sugli abusi di polizia, sembrava un evento di Fratelli d’Italia

A Verona un incontro pubblico del Partito Democratico è l’occasione dai parte dei dirigenti locali di ribadire la loro fiducia acritica nei confronti delle forze dell’ordine, perpetrando la rimozione delle violenze sistemiche fatte venire alla luce dall’indagine per violenze e torture nella questura della città.
A cura di Christian Raimo
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Ieri sono stato a un incontro organizzato dal Partito Democratico di Verona dal titolo "Sicurezza, diritti, giustizia". L’incontro si svolgeva in una sala anonima di un grosso centro sportivo, il Payanini center, era stato chiamato, dichiarava il volantino stesso, a partire “dai fatti che hanno coinvolto alcuni agenti della Questura” e dal “recente episodio d’aggressione alle Forze dell’ordine in piazzale XXV aprile davanti alla stazione Porta nuova”.

Già dall’invito poteva sembrare chiara la cornice dentro la quale era stato pensato il confronto. Probabilmente molti sanno di cosa si parla quando vengono citati i fatti della questura, ossia un’inchiesta molto estesa, in cui ventisette – su 104, più di un quarto dunque – agenti della questura di Verona sono stati accusati di reati di tortura, lesioni, falso in atto pubblico, abuso di autorità, omissione di atti d’ufficio e abuso di ufficio.

Diversi di loro sono stati arrestati o indagati per aver picchiato e torturato alcune persone, soprattutto persone in condizione di vulnerabilità, mentre erano in custodia all’interno della questura, o per non aver denunciato avvenimenti di questo tipo di cui erano a conoscenza o anche per non averli impediti quando ne avevano avuto l’occasione (qui c’è una buona ricostruzione dello stato dell’arte dell’inchiesta).

La dimensione del caso è evidentemente nazionale; per un’altra indagine così ampia che comprenda il reato di tortura, negli ultimi anni, dobbiamo andare al caso delle indagini sugli agenti penitenziari di Santa Maria Capua Vetere.

L’aggressione, citata dal volantino, davanti Verona Porta nuova, ossia alla stazione di Verona, è invece un episodio locale di lievissima entità. Un uomo fermato che si era rifiutato di dare i propri documenti, ha cercato di resistere anche fisicamente al fermo. L’episodio ha attirato l’attenzione di altre persone presenti che vedendo l’uomo a terra tenuto dagli agenti che si lamentavano, chiedevano di chiamare l’ambulanza.

Gli invitati all’incontro erano tre uomini: Davide Battisti, segretario provinciale del sindacato Siulp; don Carlo Vinco, garante delle persone detenute di Verona, e Antonino Condorelli, magistrato in pensione ex procuratore generale della corte di appello di Venezia. Tra i rappresentanti del Pd presenti c’erano Alessia Rotta, che è consigliera comunale e segretaria cittadina di Verona, Franco Bonfante che è il segretario provinciale, e Riccardo Olivieri, giovane presidente della terza circoscrizione veronese.

Proprio quest’ultimo faceva da moderatore dell’incontro. il segretario Bonfante l’aveva introdotto invitandolo a fare “domande anche imbarazzanti per fare chiarezza su quello che è successo” aggiungendo subito però, come in una strampalata par condicio, che “poi sono successe altre cose: poliziotti che facevano il loro dovere e sono stati accerchiati da decine di persone, qualcuno magari era curioso, qualcuno non con prospettive molto rassicuranti”.

Sempre secondo Bonfante, anche a causa delle indagini e soprattutto dei cinque arrestati, “oggi le forze dell’ordine si sentono meno forti di come erano prima, e anche questo non va bene”. Bonfante metteva nel calderone anche altri temi: le baby gang, e una generica “sicurezza percepita soprattutto per la microcriminalità” (nonostante i dati di reati a Verona siano bassissimi, molto al di sotto della media nazionale, e secondo quanto comunicato da poco dal questore negli ultimi mesi siano anche scesi del 4 per cento rispetto all’anno precedente). Bonfante invece glissava sul tema della criminalità organizzata, anche se solo pochi giorni fa il nucleo operativo del Ros ha dato notizia dell’inchiesta antimafia che coinvolge 43 persone appartenenti o vicine al clan calabrese dei Megna in tutta la provincia veronese.

La prima domanda che Olivieri poneva a Battisti riguardava l’indagine sulla questura: visto che sui media locali vengono riportati da settimane una serie di episodi raccapriccianti, “la prima domanda che mi viene in mente è cercare non di dare una giustificazione, ma di capire le motivazioni che possono aver portato a questi episodi di tortura da parte di quelli che dovrebbero essere deputati alla sicurezza di tutti noi”.

Se non fosse stato chiaro il senso della domanda ipersuggestiva, Olivieri specificava ancora chiedendo: “C’è una matrice umana, personale, oppure c’è un clima, c’è un sottofondo di esasperazione, c’è un sottofondo di giustificazione all’interno delle questure che va a alimentare questi comportamenti? E se sì, questo clima è aumentato per colpa di carenze di personale o per mancanza di formazione degli agenti che si trovano a far fronte a episodi in cui sono fortemente provocati, come l’episodio in stazione e tanti altri?”.

La domanda era talmente autoresponsiva che più che “anche imbarazzante”, sembrava imbarazzata o imbarazzante per chi la pronunciava, se non parodistica. Ma Olivieri non era evidentemente soddisfatto dell’acritica e sperticata dichiarazione di sostegno appena espressa nei confronti della polizia e chiosava con “una curiosità, un po’ così”, come lui stesso la definiva: “L’utilizzo del taser, può essere uno strumento valido come alternativa, come via di mezzo tra manganello e la pistola?”.

La prima domanda insomma prescindeva totalmente dall’attenzione rispetto alle persone che hanno subito gli abusi, dalla condanna della violenza sistematica, dalla richiesta di trasparenza.

Il segretario del sindacato di polizia Siulp, Davide Battisti, aveva gioco facile nel rispondere. Premetteva che non voleva entrare nell’ambito dell’indagine e poi confezionava a uso della platea, che finora non aveva nessuna sintesi dei fatti, la sua versione: sono sette episodi, diceva, di cui quattro a partire dalle ricostruzioni delle parti offese, “a fronte, abbiamo stimato, di 5 o 6mila accessi negli uffici della questura”.

Utilizzava per tutti i suoi interventi una retorica circolare, fatta di molti preamboli, di molte concessive e di molti però. Così dopo aver minimizzato la questione, usava un’altra formula retorica: “Se poi vedremo da quello che verrà dimostrato che ci fosse stato anche un solo episodio, sarà un episodio grave, da attenzionare, che però non coinvolge il resto delle forze dell’ordine”.

Apparentemente esaurito il merito dell’indagine sulla questura in due battute, Battisti coglieva l’assist di Olivieri per spostare il fuoco del dibattito e traduceva, senza nemmeno troppo sforzo, le sue domande in una rivendicazione, a suo dire professionale, di strumenti e pratiche “negli interventi su strada, per operare in quelli che poi sono secondi o frazioni di secondi”.

Senza rifare un esplicito riferimento alle indagini, diceva che i colleghi coinvolti sono giovani e molto giovani e vengono da un percorso formativo accidentato dal covid, perché, secondo Battisti, nelle videoconferenze della formazione durante la pandemia forse non ci si è concentrati come era opportuno nella pratica degli interventi su strada.

(In realtà l’età degli indagati varia, dai 20 ai 50 anni, e la maggior parte sono in polizia da molto tempo).

Sempre premettendo che non voleva entrare nel merito dell’indagine, Battisti sosteneva che le parti offese sarebbero tutti pregiudicati e che vengono fermati “in forte stato di agitazione psicofisica”.

Piuttosto che il taser, Battisti reclamava le bodycam, “per gli agenti che vivono quotidianamente le aggressioni che ormai non solo di tipo verbale, nell’80 per cento dei casi sfociano in aggressioni di tipo fisico”.

Smentiva categoricamente qualunque tipo di sistema (di violenza o copertura) all’interno dei corpi di polizia, e – con una consecutio traballante – chiosava: “Sempre di esseri umani si tratta sia nei casi delle presunte parti offese sia nei casi dei poliziotti che si trovano a difendersi da accuse gravi”, ricordando che Verona paga un tributo di vite umane importanti: “Sono morti dei poliziotti per la sicurezza di questa città”, affermava con enfasi.

Seguendo il suo filo, scoprivamo che l’ambizione che manifestava Battisti rispetto al cittadino, “il nostro primo azionista”, è quella di “far comprendere che quando si vedono volanti di polizia accerchiate si tratta di un attacco allo Stato. E quando la polizia indietreggia di fronte a una manifestazione di violenza, è lo Stato che indietreggia”.

Se quindi non si può parlare assolutamente di sistema, si può invece parlare, secondo Battisti di un diffusissimo “grado di frustrazione che pervade le forze dell’ordine”. Uno dei pochi dati da lui forniti (ha rifiutato, a esplicita richiesta, di condividere le fonti di questi dati) è che in un anno ci sono state 400 notizie di reato per oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, e che nel 94 per cento di questi casi non si è arrivati nemmeno alla fase dibattimentale.

Per Battisti, ovviamente, questo dato non significava un abuso sistematico e assolutamente distorto del ricorso al reato resistenza e all’oltraggio a pubblico ufficiale, ma al contrario mostrava e forse dimostrava l’impunità dei fermati che sarebbero aggressori.

La conclusione di Battisti era un singolare e agghiacciante capolavoro di retorica sullo stato di diritto: “Fare il nostro lavoro in una situazione del genere diventa un attimo complicato. Il rischio è quello di sovvertire l’ordinamento. Se noi non riusciamo a colpire in maniera certa coloro che aggrediscono le forze dell’ordine, ma abbiamo una risposta decisa nei confronti dei poliziotti che, per ipotesi, sbagliano; io credo che sia questo il vero focus”.

La sua tesi, che aveva potuto esporre senza nessuna richiesta di chiarimento o critica, era limpida: sono i poliziotti a essere permanentemente sotto attacco. Addirittura riportava che alle volte gli agenti, quando hanno a che fare con “una situazione borderline” (intendendo evidentemente un intervento in cui le responsabilità della violenza potrebbero non essere chiare), preferiscono magari tenersi un dito rotto, non chiarire l’accaduto, stare a casa due settimane finché recuperano la lesione.

La violenza nei confronti della polizia secondo Battisti è l’emergenza: due volte e mezza al giorno a Verona, secondo i suoi calcoli, ci sono episodi di questo tipo. Esponenzialmente di più, proseguiva il suo pseudoragionamento, che in qualsiasi altro settore, dai medici agli insegnanti.

La sua conclusione si spingeva persino verso una riflessione di tipo antropologico riguardo la “frustrazione della polizia”: “L’essere umano”, postillava, “ha un livello di tolleranza, è noto c’è chi ce l’ha più alto e chi può basso. Certo la polizia viene formata per questo, ma anche il Santo Padre, che ha fatto il giro di tutto il mondo, in un momento di nervosismo, a una fedele che gli strattonava la tonachella, si è girato in malo modo”.

A questo punto qualcuno gli faceva notare che forse l’elastico del paragone era stato tirato oltre il pensabile – gli agenti accusati di torture avvenute in un sistema di apparente impunità e connivenza avvicinati al papa che toglie nervosamente la mano da una fedele incalzante – ma Battisti insisteva e concludeva il suo lungo intervento così: “Era solo per far comprendere che l’animo umano può degenerare con la stizza in momenti di debolezza”.

A quel punto, con il papa appena citato, era Don Carlo Vinco a essere chiamato in causa dalla segretaria comunale del Pd Alessia Rotta. Don Vinco è il garante delle persone detenute, o meglio: delle persone private della libertà. Certo, è strano che sia un sacerdote a svolgere questa funzione, ma Vinco in varie interviste si è legittimato in questo ruolo per il suo rapporto “non da prete ma da amico con molti detenuti”.

Rotta gli domandava cosa abbia provato nella lettura delle notizie sulla questura di Verona, e in particolar modo riguardo la matrice razziale. (Di fatto la totalità delle vittime è straniera o di origine straniera): “Lei crede che ci sia un’intolleranza diffusa nella società?”

Don Vinco rispondeva che le questioni poste meriterebbero varie “branchie” di approfondimento, e ammetteva che secondo lui esiste un’effettiva componente razziale: chi finisce in carcere spesso sono stranieri o persone di origine straniera. Per avvalorare questa tesi faceva l’esempio dei ragazzi di seconda generazione, le baby gang evocate a inizio incontro, “anche se in questo momento in carcere una squadra di una baby gang sta vincendo il torneo di calcio”.

Sui fatti della questura sottolineava come al di là delle responsabilità individuali, non si poteva nascondere la dimensione strutturale che ha scoperchiato l’indagine, e ricordava che persino nel Vangelo c’è un momento di violenza gratuita dei tutori dell’ordine, quando prima del processo i centurioni sputano e si spartiscono le vesti di Gesù.

Questa premessa però veniva immediatamente rovesciata; Vinco concordava con Battisti che spesso è una violenza che nasce da violenza, e faceva un caso personale: “Io sto in una chiesa del centro. E anche stasera ho dovuto chiudere con una mezz’ora di anticipo, perché c’erano due che stavano rubando le cassettine. È chiaro che anche a me sarebbe venuta voglia come al papa, diciamo così, di strattonargli e magari di dargli una sberla”. Don Vinco, ricordiamolo, in questo incontro non parlava da prete di quartiere, ma da garante delle persone private di libertà, quindi – si intendeva – anche i fermati che sono stati coinvolti come parti offese dell’inchiesta.

Sul tema del carcere e del personale, Vinco metteva l’accento sulla formazione degli agenti che dovrebbe essere permanente, e oltre la bodycam richiesta da Battisti, chiedeva il codice identificativo per gli agenti.

Come riconoscere e come affrontare la violenza sistemica?, sarebbe venuto da chiedergli, ma Vinco passava a altro: descriveva le stanze pulite all’interno della questura perché inutilizzate che sarebbero dedicate alle persone straniere da rimpatriare (“Cosa che non accade mai”, brusio di indignazione in sala) e poi descriveva le sette celle, i box, le stanze di sicurezza della questura dove avviene la custodia dei fermati – e dove secondo le indagini sarebbero accaduti gli abusi e le torture – e lamentava il fatto che siano brutte, messe male, che gli andrebbe ridata una imbiancata che non vedono da decenni.

Ma aggiungeva, anche lui indulgendo in paradossali par condicio, che anche gli uffici accanto – anche questi al centro delle indagini, perché qui sarebbero stati gli agenti accusati di non essere intervenuti – suscitano pena. Questo fa parte, sintetizza Vinco, di una dimensione che definisce di “trascuratezza generale”, che accostava in qualche modo a un senso generale di violenza intesa come mancanza di cura. Ha poi presentato positivamente il fatto che insieme al questore ha incontrato gli studenti della scuola di polizia e in quell’occasione il questore ha detto a tutti di “essere gentili”.

Sulle condizioni del carcere è stato più generico. Ha accostato alla violenza strutturale evocata dalle indagini, le abitudini della polizia penitenziaria a aggiungere pene di privazione del silenzio, del sonno, del fumo.

Il terzo ospite, l’ex procuratore Antonio Condorelli, è stato chiamato in causa di nuovo dal giovane Riccardo Olivieri, con una domanda anche questa autoeloquente: “La domanda che mi viene da fargli, un po’ la vox populi è: sì, arrestano uno per il tale reato, ma poi il giorno dopo è libero! C’è da parte della magistratura italiana del lassismo? L’impressione dei cittadini è che spesso il sistema penale non funziona, che spesso non è misurato ai reati?”. Insomma Olivieri faceva sua – senza un dato, e senza più toccare il tema degli abusi della polizia – un’accanita richiesta di populismo penale.

Condorelli per fortuna provava a scartare le domande suggestive di Olivieri e a fare un discorso più ampio. Prima ricordava che esiste una convenzione internazionale datata 10 dicembre 1984, 40 anni fa, e ratificata dopo 3 anni dallo stato italiano. In quella convenzione c’era già un riferimento alla formazione rispetto al reato di tortura. Citava l’articolo 10. Lo citiamo anche noi per intero:

“Ogni Stato Parte provvede affinché l’insegnamento e l’informazione sul divieto della tortura siano parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell’applicazione delle leggi, del personale medico, dei funzionari pubblici e delle altre persone che possono intervenire nella custodia, nell’interrogatorio o nel trattamento di qualsiasi persona arrestata, detenuta o imprigionata in qualunque maniera”.

La formazione su questo campo, sosteneva Condorelli, è totalmente assente.

Poi Condorelli ricordava che la legge sulla tortura, approvata nel 2017, e già dopo pochi anni messa in discussione (il governo e il parlamento attuali vorrebbero abolirla), ha portato a indagare sia i reati di violenza privata sia un caso eclatante di tortura di Stato: quello di Santa Maria Capua Vetere.

Poi puntualizzava, per rispondere a Battisti, che il delitto di resistenza a pubblico ufficiale non è un gesto di stizza ma richiede tutta una serie di elementi costitutivi (tra cui, per esempio, l’intenzionalità), e quel 94 per cento di denunce che non arriva nemmeno in tribunale, cosa sono: reati non perseguiti, con dita rotte automedicate, oppure denunce infondate?

Poi sottolineava che l’attenzione verso i fenomeni di abusi è bassa, non è alta o esagerata, e ricorda come anche l’indagine sui fatti di Verona sia venuta fuori per un caso, ossia per un’intercettazione casuale, una di quelle che l’attuale ministro Nordio vorrebbe abolire, quelle in cui si scoprono altri reati rispetto a quelli che si stanno indagando. “Purtroppo c’è una pressione sulla polizia indebita da parte della politica”, diceva Condorelli, ricordando le condanne per la Corte europea dei diritti dell'uomo per i fatti del G8 di Genova.

Rispetto alla domanda sulla non commisuratezza delle pene ai reati posta da Olivieri, Condorelli dava una risposta di segno opposto alla brama di populismo penale di cui il rappresentante del Pd si faceva portavoce: spiegava che alcuni reati vengono giudicati con leggi che hanno un secolo. “Voi non sapete cosa rischia una persona che fa un furto in appartamento?”. I magistrati si trovano costretti spesso, secondo Condorelli, a usare il loro potere per mitigare, magari in appello, gli eccessi di pena che oggi ci paiono inaccettabili per il nostro senso di giustizia e quindi devono provare a correggere attraverso i loro strumenti giudiziari come il ricorso alle attenuanti generiche o simili.

I mancati dibattimenti e le mancate condanne per i reati di oltraggio e resistenza a pubblico ufficiale, argomentava sempre Condorelli, sono la normalità per fortuna, “a meno che non ci siano dei disperati senza avvocati che si ritrovano condannati anche a due, tre anni di reclusione”.

Alla fine concludeva che il rigore o il lassismo penale sono categorie determinate dal consenso politico e questo rende inutile molto spesso una riflessione sull’azione penale.

Le parole di Condorelli erano pacate e contrastavano il quadro che hanno provato a delineare e a giustificare i rappresentanti del Pd insieme a Battisti e in parte anche a Vinco.

Sembrava che l’obiettivo principale se non unico dell’incontro fosse mostrare la vicinanza del Partito Democratico agli agenti della questura di Verona dopo la crisi di credibilità per la pesante inchiesta sugli abusi in divisa.

Le tre posizioni di Battisti, Vinco e Condorelli sembrano rispondere alle uniche posizioni espresse nel dibattito sulla giustizia: il populismo penale, il paternalismo penale, l’elogio della magistratura. Tre posizioni, essenzialmente anti- o prepolitiche ognuna a suo modo, che una classe politica democratica dovrebbe interrogare e sfidare, e che invece non riesce nemmeno a fare interagire tra loro.

Negli ultimi interventi Vinco e Battisti hanno aggiunto altre questioni singolari, eludendo ancora il merito del dibattito.

Don Vinco per esempio ha detto che ci vorrebbero meno italiani tra gli agenti penitenziari per fare da mediatori – confondendo ovviamente tra non italiani e persone di origine straniera: “Siamo razzisti anche nella scelta delle forze dell’ordine. Non ho mai visto un poliziotto in carcere proveniente dal Marocco o dall’Africa”.

Battisti ha voluto tranquillizzare Don Vinco, perché tra gli agenti in forze alla questura di Verona “ce ne sono vari con fonie non italiane”.

Rispetto alla formazione ha detto che gli agenti hanno fatto sei giornate di formazione sugli interventi nell’ultimo anno, ma che poi ci sono tanti casi psichiatrici in cui sono chiamati a intervenire ed è assurdo che “la polizia debba riuscire a gestire quello che non riescono a gestire gli psichiatri”.

Sui codici identificativi, ha usato la solita formula retorica: “Non sto a dirvi che siamo contrari”, per poi dirsi contrari, citando il fatto che il riconoscimento degli agenti anche nelle indagini sul caso di Verona è avvenuto attraverso il confronto fotografico. “Ricordare un codice di sei cifre rispetto a ricordare un viso, non è più difficile?… La lancio come una riflessione, questa”.

Ha poi voluto prendersi ancora qualche minuto per assicurare che non esiste nessun razzismo tra le forze dell’ordine, e che “a molte persone sono i poliziotti durante i fermi che acquistano le sigarette, il panino, fa parte dell’abitudine dire Vuoi un caffè? La dico come nota di colore”.

Gli interventi dal pubblico, tra applausi e piccole prese di parola alla fine, confermavano che il sentimento che i militanti o – genericamente i sostenitori, gli interessati – alla questione del Pd concordavano con l’impostazione data al dibattito dall’inizio. I poliziotti sono buoni e vanno difesi. “Supereroi”, come veniva esplicitato in un intervento verso la fine di un signore che sposava lo sguardo di sua figlia piccola rispetto allo zio poliziotto.

Quando io ho chiesto se negli anni precedenti, dai vari osservatori, per caso avessero immaginato che potesse esistere una situazione simile, Battisti mi ha risposto assolutamente no, ed è proprio per questo che pensava che essenzialmente il caso si sgonfierà; mentre Vinco mi rispondeva: solo qualche sberlone, e chiedeva a me in modo un po’ inquisitorio se io ne fossi a conoscenza.

L’impressione agghiacciante che questo dibattito suscitava è quella di una duplice mancanza di cultura democratica. Da una parte l’assoluta sottovalutazione al limite della rimozione di questo gigantesco caso di denunce per abusi della polizia.

(Sia don Vinco che Battisti hanno risposto, tra l’altro, a una domanda precisa che non avevano assolutamente avuto nessun sentore della possibilità di questo sistema di violenze, ma nemmeno di casi isolati).

Dall’altra parte il degrado culturale sulle nozioni basilari stesso dello stato di diritto, dall’habeas corpus, alla divisione dei poteri, fino al principio di uguaglianza di fronte alla legge. Che questo spettacolo di diseducazione pubblica sia stato messo in scena dal Partito democratico in una città dove sta nella maggioranza di governo, in un momento di crisi democratica così grave come quello squadernato dall’indagine sulla questura, riempie di una rabbia infinita. Se fossi stato a un incontro di Fratelli d'Italia mi sarei sentito meno arrabbiato e spaesato, sono sincero.

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Christian Raimo è docente di filosofia e storia in un liceo romano, scrittore, collaboratore de La Stampa, Domani, Internazionale, la Repubblica e consulente scientifico di Treccani. Docente di scrittura narrativa, editing, scrittura di non-fiction in master e corsi universitari o organizzati da case editrici e agenzie letterarie. Autore di programmi TV e radio. È stato assessore alla cultura del municipio III di Roma. Il suo ultimo libro è “Scuola e Resistenza” (Altreconomia, 2024).
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