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Solo bla bla o vera svolta? G20 e COP26, così i leader mondiali decideranno il futuro del pianeta

Prima il G20 di Roma, poi la COP26 di Glasgow. Nei prossimi giorni, i leader mondiali sono chiamati a definire i nuovi obiettivi per combattere il cambiamento climatico e rispondere agli appelli di Greta Thumberg e degli scienziati, che mettono in guardia contro il rischio del disastro ambientale. Quali sono le posizioni in campo? E quali potrebbero essere i risultati dei summit? Lo abbiamo chiesto a Gianni Silvestrini, direttore scientifico del Kyoto Club e uno dei massimi esperti italiani di politiche ambientali.
A cura di Marco Billeci
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I prossimi giorni saranno fondamentali per capire se le grandi potenze mondiali sono pronte a una vera sterzata nelle strategie sul cambiamento climatico. Prima il G20 di Roma e poi la COP26 di Glasgow dovranno definire i nuovi obiettivi, per combattere il riscaldamento globale.  Abbiamo chiesto a Gianni Silvestrini – direttore scientifico del Kyoto Club e uno dei massimi esperti italiani sulle politiche ambientali – di aiutarci a capire  cosa potrebbe succedere in questi due importanti eventi.

Cosa dobbiamo aspettarci, sui temi di ambiente ed energia, dal G20 e poi dalla COP26?

Al G20 ci sarà un tentativo di "scaldare i muscoli" e stabilire dei rapporti, così da raggiungere il miglior risultato possibile alla COP26 di Glasgow.  Il primo dato è che gli Usa rientrano negli accordi di Parigi, da cui erano usciti con Trump. Rispetto alla COP di Parigi del 2015 però c’è una grande differenza. Nel periodo precedente a quell’appuntamento, Stati Uniti e Cina avevano lavorato per arrivare insieme a una strategia comune. Obama l’anno prima del summit era anche andato a Pechino e aveva stretto un accordo con Xi Jinping sul clima. Questo aveva favorito un'intesa globale. Glasgow invece parte con una base di difficoltà, per i cattivi rapporti tra Cina e Stati Uniti.

Cos'altro è cambiato dalla COP di Parigi a oggi?

A Parigi si è raggiunta un’intesa storica, benché poco ambiziosa, anche perché non vincolante. Però, già negli accordi del 2015 era previsto che ogni cinque anni gli obiettivi dovessero essere rivisti al rialzo. Adesso si sta andando nella direzione giusta, nel senso che sempre più Paesi si danno degli obiettivi, ma senza la necessaria rapidità. L’Unione europea ha fatto bene la sua parte e ora punta a ridurre del 55 percento le emissioni entro il 2030 rispetto al 1990, mentre a Parigi l’asticella era fissata al 40 percento. L’Europa si è anche data l’obiettivo della neutralità climatica al 2050. Non è una cosa da poco: significa che in trent’anni vanno fatte funzionare le fabbriche, i trasporti, l’edilizia, a emissioni nette zero.

E gli altri Paesi?

Dopo l’Europa, questo impegno è stato assunto anche da altre nazioni come Stati Uniti, Giappone, Corea e così via. Inoltre, la Russia e l’Arabia Saudita hanno fissato l’obiettivo di neutralità carbonica al 2060, una data lontana, ma che indica come anche gli stati più riluttanti abbiano capito che ormai questa transizione è irreversibile.

C'è lo scoglio della Cina

È difficile che al G20 si possa arrivare a un accordo su questi temi con la Cina, considerando anche l’assenza di Xi Jinping. D’altra parte, però, i cinesi all’Onu l’anno scorso hanno annunciato l’intenzione di arrivare alla neutralità carbonica nel 2060, un traguardo storico, considerando che il Paese ha ancora il settantacinque percento delle centrali a carbone e centinaia di milioni di persone che devono uscire dalla povertà. Certo, il recente libro bianco sul cambiamento climatico, pubblicato dal governo, annacqua un poco le speranze, anche se ad esempio si parla di un milione e 200mila Megawatt di solare e eolico, installati entro il 2030. Uno sforzo enorme.

Da quali segnali capiremo se anche la Cina ha cambiato davvero atteggiamento?

La reale novità che potrebbe segnare il parziale successo di Glasgow sarebbe che la Cina decidesse di anticipare il picco delle emissioni di Co2 dal 2030 al 2025. Significherebbe un’accelerazione sulla chiusura delle centrali a carbone e sullo sviluppo delle rinnovabili, con scelte industriali radicali. Un’altra decisione interessante presa dalla Cina è quella di non finanziare più centrali a carbone in Africa o in altri Paesi del mondo.

Rimane però una frattura che sembra insanabile. Da un lato c'è il blocco occidentale che oggi è più avanti negli obiettivi di riduzione delle emissioni, ma ha inquinato di più nei decenni passati. Dall'altro Paesi come Cina, India o Brasile che rivendicano una sorta di "diritto allo sviluppo"

Sì, però prendiamo ancora il caso della Cina. Lì c'è la spinta delle popolazioni delle città, che non riescono più a respirare, per cui stanno mettendo in atto una vera e propria ribellione, per chiedere aria più pulita. Inoltre, il governo cinese ha capito che i settori economici che si stanno aprendo – dalle auto elettriche al fotovoltaico – sono vincenti. Poi ovviamente parliamo di un mondo composito, fatto di interessi diversi, ma c’è una spinta in questa direzione.

L'altro tema che verrà affrontato nei summit è quello della crisi energetica. Di cosa si tratta?

Gli alti costi attuali dell’energia, certamente non aiutano. Parlando dell’Europa, i prezzi di oggi dicono che se fossimo partiti prima a investire sulle rinnovabili, adesso non avremmo questa grande quantità di gas e le bollette non salirebbero così tanto. In prospettiva, i consumi dovranno ridursi, usando strumenti innovativi – come l'elettrico o l’efficientamento energentico -, ma anche intervenendo sul modello economico. In generale, non è saggio investire solo sulle infrastrutture ancorate al passato, costruire solo nuove centrali o nuovi tubi, che magari non potremo  nemmeno usare. Bisogna avere la consapevolezza che ci sono nuove tecnologie, in grado di garantire la sicurezza energetica. Occorre fare davvero una transizione Green.

Nella transizione, deve avere spazio anche il cosiddetto nucleare di nuova generazione?

Sul nucleare di nuova generazione si lavora da vent’anni, ma i risultati ancora non ci sono. Laicamente direi, vediamo se nel 2030 si sarà prodotto qualcosa e vediamo quali sono i rischi e i costi. Il grande fallimento del nucleare è stato soprattutto economico, ha avuto costi altissimi senza risultati equivalenti. Ancora in questi giorni, si chiedono grandi  finanziamenti pubblici per far funzionare le centrali esistenti, che non reggono la competizione con le rinnovabili. Insomma, parlare di nucleare oggi mi sembra ridicolo, una follia.

In questo scenario, l'Italia come è posizionata?

Noi teoricamente non abbiamo ancora stabilito un nuovo obiettivo per il 2030. La nostra soglia –  definita nel Piano per l’Energia e il Clima, di due anni fa –  era di ridurre le emissioni del 37 percento rispetto al 1990, un target molto lontano dai nuovi obiettivi europei. Recentemente, pero, il ministro Cingolani e altri vertici politici hanno fissato l'asticella al 51 percento. Per dare un’idea, noi negli ultimi trent’anni abbiamo ridotto del 19 percento le emissioni. Per raggiungere l’obiettivo, nei prossimi nove anni dovremmo  ridurre del 60 percento in più, di quanto abbiamo fatto dal 1990 a oggi.

Saremo in grado di farlo?

Non mi sembra che la politica e l’opinione pubblica abbiano la consapevolezza della portata della trasformazione radicale che ci aspetta, in tutti i settori. Cingolani parla di un cambiamento con “lacrime e sangue”, ma queste sono parole che potrebbe usare il ministro dello Sviluppo Economico. Il ministro della Transizione Ecologica dovrebbe parlare invece delle straordinarie opportunità che si aprono. Paradossalmente, una parte del mondo delle imprese – soprattutto quella che lavora con l’estero – è più sveglia della politica. Pensiamo alla Motor Valley emiliana per l’auto elettrica. C’è chi ha capito che è questione di vita o morte.

Il  premier Draghi sarà capace di portare avanti una trattativa ambiziosa a livello globale?

Per lui farei un discorso diverso. Draghi è un uomo europeo, ha capito la necessità di cambiamenti rapidi, che in Italia non si avverte. Poi certo, la capacità di influenzare il dibattito ha dei limiti oggettivi. Sarà soprattutto il premier inglese Boris Johnson (co-presidente della Cop di Glasgow ndr) a condizionare la partita. Penso, però, che Draghi cercherà di usare il suo prestigio nel miglior modo possibile, per portare a casa il risultato. Sapendo che, comunque, questa COP sarà una tappa transitoria, in cui però delle caselle nuove potrebbero essere spuntate.

Quale potrebbe essere il miglior risultato possibile di queste settimane di vertici?

Il miglior scenario possibile è che la Cina anticipi il picco delle emissioni al 2025 o al 2026. Che l’India definisca un suo obiettivo, ancora oggi ambiguo. Che si stanzino risorse vere per i Paesi in via di Sviluppo, per ora promesse, ma non concretizzate. Insomma, che si sostanzi il processo iniziato a Parigi e si dia un’accelerazione. Una risposta vera agli scienziati che spiegano come non abbiamo più tempo da perdere.

E quello peggiore?

Lo stallo. Una situazione in Stati Uniti e Unione Europea si accontentano di aver fatto la loro parte, senza riuscire a coinvolgere i Paesi dove sono prodotte la maggior parte delle emissioni, dalla Cina alla Russia, dall’India all’Australia

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