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Smart working: l’ennesima “rivoluzione” del lavoro sulla pelle degli altri

Per dirla tutta, questo smart-working sembra l’ennesima rivoluzione del lavoro smart fatta col culo degli altri. I numeri, poi, sono così piccoli da chiedersi: “Perché?”.
A cura di Michele Azzu
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Tutti fermi, sta arrivando lo “smart working”. Da giorni non si sente parlare d’altro che di questo nuovo ingrediente nella ricetta di Matteo Renzi contro la disoccupazione. Di che si tratta? Lo smart working è il restyling del vecchio “telelavoro” in cui un lavoratore veniva impiegato da casa propria. Con uno scopo: “Incrementare la produttività e la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro”.

Assieme alla Legge di Stabilità – che continua il suo iter parlamentare proprio in questi giorni – il governo riferisce di star lavorando, appunto, a un disegno di legge (composto da 9 articoli) sullo “smart working” – scritto dal giuslavorista Maurizio Del Conte – ovvero una nuova forma di lavoro che permetterà alle aziende di far lavorare i dipendenti parte del proprio monte ore da casa (circa il 30-40% del tempo).

Non si tratta, quindi, di lavorare unicamente da casa, come succedeva col telelavoro, che poi è semplicemente diventato una delle tante forme di precarietà, ma solo di una parte del proprio tempo. Inoltre, specificano, lo stipendio non verrà ridotto e non si tratterà di lavoratori precari ma dipendenti. In compenso, però, si superano alcune rigidità – non sappiamo ancora quali di preciso – del vecchio telelavoro.

Il disegno di legge non è definitivo ancora, e già scrosciano gli applausi. “È una nuova maniera di conciliare produttività e esigenze del lavoratore”, si legge sui giornali. O anche: “Favorirà un cambio di mentalità nelle aziende”, mentre c’è chi avanza l’ipotesi che questo “lavoro agile” sarà una maniera per far lavorare più donne, e per evitare che l’azienda licenzi quelle incinta (perché lavoreranno da casa).

I numeri su cui si basano le valutazioni sullo “smart-working” sono pochi, per la verità. Per l’Osservatorio sullo “smart-working” del Politecnico di Milano le grandi aziende che hanno usufruito di questa modalità in Italia sono il 17% quest’anno. Ma nelle piccole e medie imprese – che costituiscono il 90% delle imprese in italia – solo il 5% ha avviato progetti simili. Inoltre, la maggior parte di questi consiste in mobilità fra le diverse sedi di un’azienda o in telelavoro.

IL CASO MONDADORI. Le prospettive però, a detta degli esperti, sono di crescita per i prossimi anni. Ma la realtà torna a bussarci alla porta. Mondadori chiude la sede romana dei periodici e intende mettere a “smart-working” cinque giornalisti delle riviste Panorama e Chi. Una opzione non prevista dalla normativa vigente – il ddl deve ancora uscire – né dal contratto dei giornalisti. Inoltre non potrebbe trattarsi davvero di “smart working” dato che queste persone dovrebbero lavorare il 100% del tempo a casa, a meno di recarsi alla sede di Milano due settimane al mese (ma questa idea non è avanzata da Mondadori).

Come è possibile che esista già un caso, ancor prima del ddl del governo? Il Fatto Quotidiano avanza un’ipotesi. Ci sarebbe da parte di Mondadori: “Il tentativo di assicurarsi, peraltro a norma di legge, l’accesso al fondo non appena le regole sullo smart working entreranno in vigore”. Si parla dunque di un fondo legato allo smart working: “Il secondo comma dell’articolo 14 della Legge di Stabilità prevede l’istituzione di un fondo presso il ministero del Lavoro (con una dotazione di 10 milioni nel 2016 e 50 dal 2017) per finanziare la flessibilità tempo-luogo di lavoro anche per i dipendenti a tempo indeterminato”.

PRODUTTIVITÀ, FLESSIBILITÀ E RIDUZIONE DEI COSTI. A chi serve lo smart-working? La ratio è definita all’articolo uno: aumentare la produttività (solo in seguito si parla di esigenze del lavoratore). Cosa significa? Lo spiega a repubblica.it Giulietta Bergamaschi, avvocato del lavoro e partner di Lexellent: “La determinazione dello svolgimento della prestazione stessa in base a obiettivi o risultati predeterminati, nell’ambito di un progetto svincolato da orari”. Dunque, il lavoro da casa deve essere vincolato a obiettivi e risultati: altrimenti come si farebbe a determinare quante ore ha lavorato davvero una persona stando a casa?

Poi c’è la questione sulla flessibilità dei contratti. Come dice Mariano Corso, responsabile scientifico dell'Osservatorio smart-working del Politecnico di Milano: “Allo smart working non si applicano i pesanti adempimenti a carico delle imprese che hanno fortemente limitato la diffusione del telelavoro”. Aggiunge Patrizio Di Nicola su rassegna.it: “La chiave del successo del lavoro agile nella legge di stabilità 2016 dovrebbe risiedere nella flessibilità: contrattuale, in quanto ad esso non si applicano gli accordi relativi al telelavoro”.

Produttività, flessibilità dei contratti. E riduzione dei costi: l’azienda non deve pagare un posto fisico in cui far lavorare una persona (o per meno tempo rispetto a prima). Parlando di smart-working, infatti, si è parlato spesso anche di co-working, ovvero delle postazioni di lavoro condivise in cui tante persone oggi si incontrano per condividere esperienze e professionalità, laddove non siano più impiegati all’interno di un’azienda.

IL CO-WORKING E LE DONNE INCINTA. Il co-working è una realtà interessante che sta prendendo piede anche nel nostro paese, con 349 spazi, e che sembra funzionare per diverse professioni. Il problema, però, è: questi spazi chi li paga? Risposta: il lavoratore stesso. Che oltre ad avere uno stipendio già misero – la media italiana degli stipendi medi è fanalino di coda in europa – deve anche decurtarsi 200, 250 euro per una scrivania con internet.

Si parla, poi, di includere più donne grazie allo smart-working, o di evitare i licenziamenti per quelle incinta, di madri che potranno accompagnare i figli a scuola e tornare a casa a lavorare senza la necessità di recarsi nel lontano ufficio. Ma tutto questo, dove sta scritto nel ddl sullo smart-working? Ma davvero un’azienda tanto disonesta da licenziare una donna perché ha figli, o perché è incinta, grazie allo smart-working diventerà improvvisamente corretta?

Se da una parte in Italia è necessario cercare di innovare le piccole e medie imprese, e lo smart-working è un passo in questo senso, dall’altra esistono scenari del tutto verosimili che vanno considerati. Ad esempio, può lo smart-working diventare un reparto punitivo per quei dipendenti non allineati, non produttivi, quelli discriminati perché donne, o appartenenti a minoranze? Un reparto simile alla cassa del supermercato, dove si finisce spesso per subire mobbing. O un’anticamera del licenziamento?

Non si tratta di essere gufi: il punto è evitare gli abusi che sempre accadono in questo paese perché si legifera in una maniera vaga che ognuno può interpretare come crede. Quelle deviazioni che hanno portato la partita Iva da imprenditori ad includere grafici e giornalisti e infermieri ed avvocati precari – perché all’azienda costavano molto meno. Quel tipo di storpiature che portano un’azienda come Mondadori a ricorrere allo smart-working ancora prima che sia legge, con l’ipotesi di un interesse per dei fondi statali.

Insomma, questo smart-working sembra l’ennesima rivoluzione del lavoro smart fatta col culo degli altri. I numeri, poi, sono così piccoli da chiedersi: “Perché?”.

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Michele Azzu è un giornalista freelance che si occupa principalmente di lavoro, società e cultura. Scrive per L'Espresso e Fanpage.it. Ha collaborato per il Guardian. Nel 2010 ha fondato, assieme a Marco Nurra, il sito L'isola dei cassintegrati di cui è direttore. Nel 2011 ha vinto il premio di Google "Eretici Digitali" al Festival Internazionale del Giornalismo, nel 2012 il "Premio dello Zuccherificio" per il giornalismo d'inchiesta. Ha pubblicato Asinara Revolution (Bompiani, 2011), scritto insieme a Marco Nurra.
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