Praticamente tutti i sondaggi sono concordi nell’evidenziare il vantaggio di cui godrebbe la coalizione di centrodestra nel caso in cui si tornasse immediatamente al voto per le elezioni politiche. La macchina “a 4 gambe” (FI, Lega, Fratelli d’Italia e Quarto Polo) è accreditata di percentuali tra il 32 e il 36%, numeri che, se confermati o meglio ampliati, potrebbero garantire la conquista della maggioranza dei seggi in entrambi i rami del Parlamento. Infatti, la coalizione di centrodestra sembra poter vincere in gran parte dei collegi uninominali, forte di una certa omogeneità su base territoriale del voto (le lacune della Lega al Sud potrebbero essere colmate dal Quarto Polo o da altre alleanze strategiche, come fatto già in passato), ma anche dell’effetto traino che gli stessi sondaggi e il “clima” della campagna elettorale potrebbero garantire.
Berlusconi lo sa bene e ha deciso di giocare d’anticipo. Da un lato ha meticolosamente preparato il racconto del suo “trionfale ritorno in campo”, riuscendo a orientare la discussione pubblica al punto da far apparire come una marcia inarrestabile la conquista del 15% di Forza Italia (che resterebbe comunque il punto più basso della storia), come inevitabile la sua ricomparsa sulla scena politica (malgrado sia incandidabile) e infine come naturale la sua occupazione capillare del dibattito pubblico, con decine di comparsate in televisione, interviste e messaggi praticamente senza contraddittorio alcuno (il silenzio del giornalista de La7 mentre raccontava una improbabile storiella di africani scalzi a guardare maxischermi tv è paradigmatico).
Allo stesso tempo, Berlusconi ha cominciato il percorso di accerchiamento degli alleati Meloni e Salvini, convincendoli dell’inevitabilità di una intesa e prospettando per loro un’altra stagione di subalternità, nel caso in cui avessero scelto di “fare da soli”. I due leader della destra italiana si sono così trovati a dover fare i conti nuovamente con l’invadenza di un alleato che, pur non essendo un nome spendibile politicamente per il loro elettorato, rappresenta il collante essenziale se la coalizione intende essere competitiva. La legge elettorale, in tal senso, ha dato una robusta mano a sovrapporre i concetti di coalizione politica e cartello elettorale, non prevedendo né un programma comune né il nome del leader.
In un contesto simile, dunque, è stato possibile affrontare la trattativa sul programma senza affanno, con la consapevolezza di poterne piegare i punti cruciali a esigenze elettorali, per poi riaffrontare il problema nell’eventualità che si vada al governo del paese. I volti sereni e sorridenti nel post meeting non sono il risultato della messa a punto di una macchina pronta a governare il Paese, ma quanto di un compromesso che va bene a tutti, almeno per il momento.
Quello presentato con enfasi mediatica non è un programma, è un elenco di slogan. Affermare che la riunione di Arcore abbia risolto i problemi e appianato le distanze fra Berlusconi, Meloni e Salvini è un falso, che ha senso solo se interpretato in chiave elettoralistica. Questo non è un “programma comune”, ma una piattaforma di lavoro, una traccia di un cammino tutto da scrivere:
- meno tasse
- meno burocrazia
- più sicurezza per tutti
- riforma della giustizia e giusto processo
- difesa delle aziende italiane e del Made in Italy
- imponente piano di sostegno alla natalità
- adeguamento delle pensioni minime a mille euro
- codice di difesa dei diritti delle donne
- revisione del sistema istituzionale in senso federale e presidenzialista.
Tralasciando la flat tax, scippata dal Cavaliere all’alleato “distratto”, l’unico elemento di novità è costituito dal Sì forzista alla cancellazione della legge Fornero. Una legge che loro hanno votato e sostenuto, la cui abolizione necessita di coperture per centinaia di miliardi di euro. Che, ovviamente, nessuno dice dove andare a prendere.
Poi c’è la questione del nome, anzi, dei nomi. Berlusconi, al momento, non è candidabile (e non ci sono sviluppi attesi a brevissimo termine). Salvini continua a ripetere di poter essere il premier nel caso in cui la Lega ottenga più voti di Forza Italia e sta conducendo una campagna trumpiana, nella comunicazione e nei toni, ma gli alleati non sembrano convintissimi. Meloni non appare l’elemento adatto per “mediare” fra i due. Fitto, Tosi e altri non hanno il quid.
E allora? Ecco, serve un nome di compromesso. O meglio, di garanzia, nel caso la sfida interna sia vinta da Berlusconi o da Salvini. E allora le ipotesi che circolano sono essenzialmente due: la trazione forzista, che sarebbe collegata a un nome forte, di spessore internazionale, come quello di Antonio Tajani; la trazione leghista, ovvero la guida di Roberto Maroni, “non troppo vicino” a Salvini, ma dall’indiscutibile pedigree leghista. Due nomi di garanzia, autenticamente di centrodestra, ed esperti abbastanza nell'arte del compromesso e della mediazioni, essenziale se si vuole reggere un governo pur avendo una maggioranza risicata o addirittura ballerina (di più, la nuova legge elettorale non consente).