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Siamo seri, il disastro alle Regionali dell’opposizione a Giorgia Meloni non dipende dall’affluenza

Alle Regionali nel Lazio e in Lombardia è un trionfo di Giorgia Meloni, l’ennesimo. L’opposizione incassa l’ennesima batosta e ai leader o presunti tali non resta che “l’allarme democratico” della poca affluenza alle urne.
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Semmai ce ne fosse bisogno, le Regionali nel Lazio e in Lombardia certificano inequivocabilmente che la luna di miele fra Giorgia Meloni e gli italiani non è ancora finita. Fratelli d’Italia traina il trionfo di Rocca e Fontana, candidati di un centrodestra che riesce sempre a presentarsi compatto agli appuntamenti elettorali, malgrado le sfumature e le posizioni talvolta inconciliabili di leader e dirigenti di primissimo piano. Persino il colpo di teatro di Silvio Berlusconi, che sceglie il giorno del voto per aprire un incidente diplomatico e mettere in discussione la linea del suo governo sull’Ucraina, passa in cavalleria di fronte ai dati delle urne. Netti, inequivocabili, senza appello.

Ecco, no. Non ci pensate nemmeno a chiamare in causa l’affluenza. Certo, non ci sono dubbi sul fatto che si tratti di un dato eclatante (e preoccupante), ma stavolta è necessario che l’analisi della sconfitta dei partiti all’opposizione sia più seria e rigida, senza sconti. Peraltro, a voler essere sintetici: l’astensione è un trend conclamato, che ormai ci accompagna da anni sia pur con piccole oscillazioni; tradizionalmente la bassa affluenza dovrebbe favorire il centrosinistra (o quel che è); la disaffezione dei cittadini sembra essere la conseguenza del fallimento di determinati progetti e processi politici, più che la causa.

Né può bastare la considerazione delle “divisioni dell’opposizione” a spiegare la ragione di un tale risultato. Con un minimo di onestà intellettuale, si potrà agevolmente convenire che, dato il contesto politico attuale, neanche un eventuale fronte unico Pd- M5s – Terzo Polo – altri avrebbe cambiato l’esito delle elezioni regionali. Ciò che, sia pur fra mille difficoltà, sembrava potenzialmente attuabile nella fase di avvicinamento alle politiche, il “fronte comune per arginare la destra”, sarebbe stato incomprensibile agli occhi degli elettori dopo mesi di scontri fratricidi, di opposizione inesistente e di corsa solitaria dei singoli partiti. Pensare che potesse bastare un cartello elettorale per fermare il vento della destra che da mesi soffia impetuoso sul Paese è tra l’ingenuo e l’utopico. Così come ha poco senso interrogarsi su questo o quel candidato: D’Amato, Majorino, Moratti, Bianchi hanno fatto il possibile, spesso senza alcun appoggio “da Roma”. Di certo, non potevano avere loro il compito di ricostruire quel legame con gli elettori spezzato da anni di scelte timide, incomprensibili e spiazzanti.

Le configurazioni con cui l’opposizione si è presentata nelle due Regioni (Pd e M5s alleati in Lombardia e avversari nel Lazio, Terzo Polo e PD assieme per D’Amato, divisi su Moratti, Terzo Polo e Cinque Stelle nemici ovunque) possono aver convinto molti cittadini che non valesse neanche la pena provarci, ma sono un sintomo della malattia, non la causa.

Il punto principale è che non esiste una strategia comune ai tre/quattro macro-blocchi da cui è composta l’opposizione. Ciascun partito (o peggio, corrente di partito) persegue obiettivi diversi, spesso inconciliabili. Ci sono progetti politici che si sovrappongono e c'è una feroce concorrenza per posizionarsi sui singoli temi. I pochissimi leader rimasti in campo finiscono per essere destinatari di aspirazioni e speranze che non hanno poi la forza di sostenere (servirebbe un potere taumaturgico laddove al massimo c’è una guida carismatica…). Un vuoto di presenza, oltre che idee e visioni del mondo, nel quale la destra passeggia indisturbata, potendo contare su una leader riconosciuta e su semplici ma efficaci coordinate di lettura e comprensione dei processi in atto (vedremo se ciò produrrà anche un vero cambiamento culturale della classe dirigente della destra, cosa niente affatto scontata). Manca una visione moderna e dove non ci sono idee né interpreti, collassano anche le strutture e i partiti diventano scatole vuote.

Il Partito democratico, ancora una volta, ha la responsabilità maggiore della devastazione del campo del centrosinistra. Più volte si è discusso della fallimentare strategia di avvicinamento e poi di gestione delle Politiche, ma in pochi avrebbero ipotizzato una transizione così confusa e autolesionista. Che ha prodotto una situazione surreale: una campagna elettorale di tale rilevanza condotta in pieno congresso, senza un leader o un minimo riferimento che potesse sostenere lo sforzo dei candidati locali, unita a un’incapacità preoccupante di posizionarsi senza ambiguità sui temi al centro del dibattito pubblico (ambientalismo, reddito di cittadinanza, immigrazione). L’indifferenza pressoché totale con cui il resto del Paese sta assistendo alla corsa per la segreteria dovrebbe spingere a riflettere sul potenziale residuo di un soggetto politico in tali condizioni. È vero, la crisi dei democratici ha radici lontane e comuni a tanti soggetti "simili" nel resto d'Europa. Ma evidentemente è giunto il tempo almeno di problematizzare seriamente la questione, interrogandosi sul senso e sulla funzione di un partito che non è più attrattivo per le giovani generazioni né capace di conservare il proprio elettorato di riferimento. Peraltro, al netto di chi vincerà le primarie, la strada è piena di ostacoli, gran parte dei quali piazzata da quelli che in teoria sarebbero gli alleati potenziali.

I Cinque Stelle, ad esempio, stanno da mesi cercando di consolidare il loro posizionamento nel campo del centrosinistra, per diventare una forza politica radicale sui temi dell'ecologia e delle questioni sociali, populista nei metodi della comunicazione e leaderistica in quelli della pratica politica. Una strategia cinica e pragmatica, volta all'accrescimento e al rafforzamento del consenso, che rimanda all'idea dello "splendido isolamento" rispetto agli altri partiti: solo in questo modo, è idea condivisa nella dirigenza (ex) grillina, si possono scegliere posizionamenti forti ed efficaci sui singoli temi, che pongano Giuseppe Conte come unico reale avversario di Giorgia Meloni. Passare sulle rovine del Pd o indebolire la stessa lotta ecologista sono questioni di poco conto, almeno per ora.

Nell'assenza di propensione al martirio e nella cura del proprio particulare, l'idea dei Cinque Stelle non è molto dissimile da quella del Terzo Polo. Calenda e Renzi hanno un progetto chiaro, la costruzione di un partito liberale che sia abbastanza forte da condizionare nascita e operato dei governi, e una strategia di lungo periodo per perseguirlo. È un progetto ambizioso, che non prevede atti di buona volontà nei confronti degli altri partiti di opposizione (tipo appoggiare un candidato di un altro partito nella regione in cui avevano ottenuto il miglior risultato alle politiche, col rischio di disperdere il consenso). E che non contempla l'idea dell'opposizione barricadera, nella consapevolezza (speranza?) che l'avversario di oggi potrebbe essere l'alleato di domani. Pazienza se una simile strategia è incompatibile con la ricerca dell'unità dell'opposizione o con il successo in questa o quella competizione elettorale locale. In tal senso, una prova disastrosa come quella in Lombardia va messa in conto.

Insomma: da una parte una leader carismatica che ha appena vinto le elezioni, ha in mano le redini del suo partito e del governo, e può contare sull'appoggio di media e osservatori internazionali; dall'altra pochi leader l'un contro l'altro armati, che inseguono progetti diversi e hanno visioni del mondo inconciliabili. Che strano sia finita come è finita, no?

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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