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Opinioni

Siamo nelle mani di Salvini e Di Maio. E voi continuate a sottovalutarli

Quello che sta per nascere è prima di tutto l’esecutivo di Salvini e Di Maio, leader che sono stati capaci di saldare le due anime del populismo: quello movimentista e anticasta, con quello di destra e nazionalista. Due leader che, al netto di qualche spiffero, hanno il pieno controllo sui due principali partiti italiani. E che, infine, hanno scritto un programma a loro immagine e somiglianza. Insomma, in questi anni vedremo la completa identificazione fra governo, partito e leader. Se ancora vi pare poco…
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La Brexit, l’elezione di Trump e la nascita del primo governo populista e antisistema della storia italiana sembrano eventi uniti da un filo rosso che parte dalla crisi economica, passa per enormi cambiamenti socio-culturali e porta alla crisi della democrazia liberale e del modello rappresentativo. Il caso italiano, però, ha delle peculiarità e delle caratteristiche che vale la pena di analizzare con calma. Non è semplice provare a ricostruire come si è giunti a questo punto o immaginare quale sarà lo scenario nel medio e lungo periodo, quel che è certo è che siamo di fronte a un turning point, un momento che può cambiare il quadro politico e sociale italiano (con chiare ripercussioni a livello europeo). Tra gli analisti e i commentatori, c'è chi è convinto che l'alleanza Lega – M5s non possa che produrre caos e confusione, finendo per esaurirsi nel breve volgere di qualche mese. E c'è chi invece crede che sia chiara la tendenza in atto: la strutturazione di un nuovo bipolarismo, che vede da un lato i partiti populisti, nella veste anomala di "forze di governo", dall'altra il fronte moderato e conservatore. Del fronte progressista, o di sinistra, nessuno vede tracce concrete.

Se è vero che si tratta di trasformazioni in atto praticamente ovunque nel mondo occidentale, per paradossale che possa sembrare in Italia, che si vada nell'una o nell'altra direzione, dipenderà anche dalle scelte che faranno i due leader, Matteo Salvini e Luigi Di Maio, nonché dal modo in cui le altre forze politiche organizzeranno l'opposizione al governo Lega – M5s. Ma come siamo arrivati al punto in cui Salvini e Di Maio sono diventati gli interpreti più autorevoli e capaci del "fenomeno populista", fino ad arrivare a esprimere il capo del governo di un paese membro del G8? Ecco, quella di Salvini e Di Maio è prima di tutto la storia di due sottovalutati, guardati con alterigia dai politici vecchia scuola e con un sorriso sarcastico dai politici di nuova generazione. Che non hanno colto un passaggio cruciale: in pochi anni Salvini en Di Maio hanno assunto il ruolo di rottamatori di forme e modi della politica, oltre che dei partiti di cui hanno preso le redini. Sono stati capaci di ripensare il loro ruolo e la struttura dei loro partiti, leggendo prima di altri gli umori e le speranze di un intero paese.

Salvini ha preso un partito che valeva circa il 4%, distrutto dal familismo bossiano e da anni di schiacciamento sulle posizioni berlusconiane. Ha avuto l’intuizione di non seguire i “buoni consigli” dei militanti storici del Carroccio, quelli di rilanciare la missione “regionale” della Lega, ma di trasformarla in forza nazionale, collocandola nel solco di una corrente di pensiero che va da Martine Le Pen a Orban. Come si passa dalle magliette “Padania is not Italy” al sovranismo nazionalista? Come si passa dall’idea di “agganciare la Lombardia all’Europa” alla critica feroce alla Ue e alla riscoperta dei miti fondativi dell’identità nazionale? La risposta è ovviamente complessa e il percorso di Salvini è stato tortuoso e ricco di contraddizioni. Il leader leghista si è mosso con irruenza e tra mille errori, strizzando l'occhio alla parte peggiore di questo paese, sconfessando persino la matrice antifascista della Lega (ehm, c'era). Il punto che in pochi colgono, però, è che la coerenza non è più una virtù, o meglio, non è tra gli elementi che spingono un elettore a preferire un leader piuttosto che un altro. Essenzialmente perché non è più un valore neanche per gli stessi politici, nell’era del dichiarazionismo e della sostituzione dei fatti con l’interpretazione degli stessi, del trionfo della narrazione sulla realtà.

Salvini lo ha capito prima di tutti e meglio di tutti, diventando l’alfiere dello spontaneismo, interprete perfetto di un mondo in cui “la sincerità, la reazione istintiva, la schiettezza, l'efficacia dello slogan hanno preso il posto tradizionalmente occupato dalla verità dei fatti; un piano nel quale la sincerità del politico, la sua integrità e la sua intransigenza, bastano a renderlo "credibile", degno di fiducia e di appoggio, al di là della sua preparazione e del suo essere capace di risolvere davvero i problemi concreti; un piano nel quale non c'è posto per l'eccessiva elaborazione teorica, per l'eloquio forbito o per la conoscenza specifica degli argomenti, che vengono sostituite dallo slogan, dalla ricetta cotta e mangiata, dalla soluzione a portata di mano”.

Nella costruzione del personaggio Salvini, il “Capitano”, ha giocato un ruolo determinante la strategia applicata sui social. Usati in prima persona in modo aggressivo e ossessivo, come vi abbiamo raccontato: "Matteo scrive in prima persona su Facebook (e con una continuità spaventosa), posta foto, notizie (bufale e robaccia), utilizza twitter in maniera meno intensiva ma più incisiva, ha ben chiare le differenze fra i due mezzi e le sfrutta a proprio vantaggio; la sua attività social è sempre "orientata", studiata, ragionata”. La scelta del livello linguistico è stata un altro tassello: il rifiuto della complessità, la semplificazione brutale, la schiettezza come valore assoluto, sono tutti elementi che lo hanno reso vicino alla gente, reso megafono della loro “stanchezza e indignazione”.

Mentre però nessuno si curava di questo "personaggio folcloristico", parallelamente Salvini metteva mano anche alla piattaforma programmatica e ideologica della sua creatura. Una serie di concetti semplici e di misure semplicistiche ribaditi in modo continuo e ossessivo, anche grazie a una occupazione totale dei mezzi di comunicazione (c’è stata una lunga fase in cui Salvini era sempre, ma proprio sempre, in tv, o in radio), cui si è accompagnata una sterzata netta dal punto di vista ideologico. La lepenizzazione riveduta e corretta della Lega si è accompagnata alla “definizione di una piattaforma interclassista, che fa presa indifferentemente sul proletariato urbano, su ciò che resta del "ceto medio" (sempre ammesso che esista ancora, eh), tra i piccoli e medi imprenditori provati dalla crisi, tra le vittime della fine dello statalismo e tra vecchi e nuovi nostalgici della soluzione pragmatico – autoritaria”. Un populismo di destra in grado di usare il concetto di disagio come grimaldello per entrare in un mondo composito, sensibile ad argomenti come “invasione”, “democrazia rubata”, “lobby dei tecnocrati”, “attacco alla famiglia tradizionale”, “padroni a casa nostra”. In definitiva, Salvini ha nuotato in un mare di insicurezza, ansia e paura, elaborando risposte semplici a problemi complessi. Che queste risposte non possano funzionare, fino a ieri, non era un suo problema. Che nessuno si sia accorto di quanto in fondo si stesse spingendo Salvini, invece, è un problema di tutti. Di Berlusconi, rottamato senza colpo ferire. E di Renzi, utilizzato come nemico pubblico numero uno per gonfiare le urne con i voti leghisti.

L'altro protagonista di questa storia è Luigi Di Maio, che con Salvini ha poco in comune. Salvini è un populista a capo di un partito tradizionale, Di Maio è un politico tradizionale a capo di un movimento populista. In più, Salvini ha ridefinito la Lega come partito partito populista, Di Maio ha istituzionalizzato il MoVimento 5 Stelle, il partito fieramente populista.

L’attuale ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico, nonché vicepresidente del Consiglio, ha gestito da assoluto protagonista la prima fase post elezioni, dettando le condizioni, scegliendo il terreno dello scontro, portando il centrodestra alla rottura e il PD a un passo dal liberarsi di Renzi. In questa fase ha dimostrato una spregiudicatezza e una capacità di lettura della situazione che nessuno gli aveva mai riconosciuto. Si è incartato solo quando è rimasto senza alternative, costretto a inseguire Salvini e pressato dall’incubo del ritorno alle urne, che lo avrebbe costretto a operare l’ultima forzatura alla struttura del M5s: la rinuncia al vincolo del doppio mandato, l’ultimo bastione di ciò che era una volta il Movimento. Già, perché mentre i democratici e i berlusconiani si dilettavano con le battute sul suo curriculum o sulla sua capacità di leggere e comprendere le e-mail, Di Maio, con l’aiuto di Casalino e Casaleggio, ha rivoluzionato il Movimento 5 Stelle, blindando candidature e posizioni di prestigio, creando dal nulla una cabina di regia che ha di fatto esautorato eletti e militanti dalle decisioni che contano. Il M5s come organismo aperto e inclusivo, quello della democrazia diretta, delle scelte condivise e dei semplici portavoce non esiste più: ora c’è un partito leaderista, gerarchicamente strutturato, che controlla in maniera ferrea comunicazione e decisioni chiave.

Del resto, già prima delle elezioni a Di Maio era riuscito un piccolo capolavoro politico: l’emarginazione indolore di Beppe Grillo, l’accentramento di gran parte delle decisioni sul suo cerchio magico, l’apertura a personalità esterne al Movimento e la riduzione di iscritti e militanti a meri ratificatori di decisioni già prese. Poi, dopo il 4 marzo, ha abbattuto l’ultimo tabù: l’alleanza di governo (certo, il contratto…) con una forza politica tradizionale, peraltro schierata ideologicamente e i cui parlamentari sono stati eletti anche grazie ai voti di Silvio Berlusconi. Certo, non sono mancate le polemiche interne (peraltro la mossa di dare una carica istituzionale al suo unico oppositore interno è stata molto intelligente), ma tutto lo sforzo è stato concentrato in direzione del vero obiettivo: portare il M5s al governo del Paese, risultato incredibile se si guarda solo a 6 anni fa o al modo in cui sono (erano) schierati praticamente tutti i media e gli ambienti che contano. Come se non bastasse, Di Maio è riuscito a far digerire ai suoi militanti un programma di destra, probabilmente di estrema destra, senza scatenare polemiche o rivolte: del resto, il governo val bene una messa. Anzi, per "il governo del cambiamento" si può sacrificare tutto.

Anche nei confronti di Di Maio lo schema è stato sempre lo stesso: è un populista e un demagogo, completamente impreparato e inadeguato al ruolo. Calenda, solo qualche giorno fa, gli dava dell’incompetente incapace di pianificazione. Certo, Di Maio cavalca elementi cardine del populismo “gentista: “è populista il continuo richiamo alla casta, ai tecnoburocrati, ai poteri forti; è populista l'atteggiarsi a interpreti privilegiati della volontà popolare; è populista il continuo asservimento della proposta politica all'umoralità di follower e cittadini indignati". Ma ci sono caratteristiche, come la semplificazione del linguaggio, l'attenzione alle conseguenze concrete delle scelte politiche, l'asservimento dell'ideologia al senso pratico, la ricerca del consenso a tutti i costi, la capacità di raccogliere consensi che nascono da pulsioni confuse e indeterminate, la bravura nel leggere i cambiamenti del paese, che ne fanno un avversario di tutto rispetto, un politico moderno, ancorché acerbo e privo di struttura.

Continuare a sottovalutare entrambi significa non leggere le potenzialità devastanti della saldatura fra il populismo di destra e il gentismo, fra una ideologia aggressiva e demagogica con pratiche economiche redistributive o addirittura di stampo keynesiano, peraltro accompagnate da una politica estera che, se perseguita fino in fondo, porterà all'isolamento sul piano internazionale. Una miopia che potrebbe avere effetti clamorosi sul nostro Paese. Continuare a sottovalutare Salvini e Di Maio significa non capire la portata dell'esperimento in atto: la settima potenza mondiale guidata da un governo di forze antisistema, con un programma di ampio respiro che davvero potrebbe cambiare il quadro economico – culturale – sociale dell'intero paese.

E significa non vedere anche un altro aspetto: ora, dopo tre mesi di crisi, abbiamo un governo in carica, sostenuto da un'ampia maggioranza parlamentare. Abbiamo un Presidente del Consiglio evidentemente debole, affiancato da due super vicepresidenti, che sono anche a capo di ministeri pesantissimi. Siamo, insomma, nelle mani di Luigi Di Maio e Matteo Salvini, gli unici due veri leader in campo in questo momento. Che, al netto di qualche spiffero, hanno il pieno controllo sui due principali partiti italiani. E che, infine, hanno scritto un programma a loro immagine e somiglianza. Insomma, in questi anni vedremo la completa identificazione fra governo, partito e leader. Se ancora vi pare poco…

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A Fanpage.it fin dagli inizi, sono condirettore e caporedattore dell'area politica. Attualmente nella redazione napoletana del giornale. Racconto storie, discuto di cose noiose e scrivo di politica e comunicazione. Senza pregiudizi.
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