Un camionista ha frustato delle ragazze eritree che si erano nascoste nel suo camion per passare il confine a Ventimiglia, e avere salva la vita.
C'è un video, forse lo avete visto, lui le fa scendere una dopo l'altra: il piano del cassone del camion è alto, lui urla, loro prendono rassegnazione e saltano, una di loro è incinta. Il camionista tiene in mano una cinghia con un terminale di ferro; mentre loro saltano lui prepara il colpo e appena atterrano lo lascia partire. "Stac!" Una volta dopo l'altra: "Stac!". E poi ancora: "Stac!".
Sferzare, si dice in gergo. La sferza è la frusta, come per gli animali, o come in Alabama prima del 1865.
Ho visto il video della violenza due giorni fa, però ho aspettato 48 ore prima di tentare una riflessione. L'ho fatto perché va bene essere sulla notizia, ma non troppo perché poi la notizia ti mangia, e la verità è che ho ancora lo stomaco in subbuglio. Non ho i peli sullo stomaco, ho le voragini. I buchi. Il baillame nelle budella. Le ragazze, giovanissime, sono tornate nel centro di accoglienza dove avevano passato la notte, e riproveranno nei prossimi giorni a varcare il confine di Ventimiglia ed entrare in Francia, perché per loro significa avere la possibilità di ricostruirsi una vita. Né più, né meno. Perché non è servito a niente ricacciarle indietro, non è servito a niente farlo in quella maniera.
Facciamo un passo indietro: il camionista ha sbagliato, ma non di questo voglio parlare, anche se questo è uno dei pochi fatti sicuri di questa brutta storia. Il camionista rischia l'accusa di lesioni e di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, anche se ha già ripreso il viaggio e ora è in Francia, almeno lui, beato lui. Le ragazze che scappavano dal regime eritreo, invece, no. Il camionista temeva l'accusa di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina, ma nessuna paura può portarti a frustare un essere umano in difficoltà. E poi forse la paura che gli sporcassero il pavimento del cassone del camion con le suole delle loro scarpe da giovani che fuggono; tutta quella polvere eritrea entrata senza invito, per questo lui le spazza via.
"Perché non restano a casa loro?" urlano i predatori di risorse, i nostrani, i patrioti. La risposta è semplice: se potessero, molti migranti resterebbero dove sono nati. Qualcuno ugualmente si metterebbe in viaggio, come fanno gli europei quando vanno negli Stati Uniti d'America, o gli italiani a Londra. E i migranti lo farebbero in aereo, con i comfort, senza fruste, se potessero. Ma la maggioranza sceglierebbe di restare dove è nata e userebbe l'Europa, al massimo, per una vacanza.
Fuggono, i migranti, per tanti motivi diversi che si possono riassumere nel più antico, nato con la comparsa dell'umanità su questa Terra: cercano condizioni di vita migliori.
Vi racconto questa storia, che è Storia: l'Eritrea fu creata come entità politica nel 1890, e sapete come fu chiamata? Colonia eritrea. Proprio così, doppio nome: "Colonia eritrea". Furono gli italiani a battezzarla così, siamo stati noi i più feroci coloni dell'Eritrea. I predatori non sono loro che vengono in Italia, oggi. Siamo stati noi italiani che siamo andati "a casa loro" tanti anni fa, e abbiamo continuato a sfruttarne le risorse. Il mito delle "belle colonie italiane" è appunto un mito. Le colonie sono sempre state predazione e violenza, anche quelle italiane. In Eritrea, poi, furono impiantate fabbriche di munizioni e armamenti, che servirono per la conquista dell'Etiopia nel 1935, durante il fascismo, ecco un'altra colonia italiana.
In Eritrea esiste un solo partito riconosciuto e un presidente eletto nel 1993, sempre lui, da allora nessun'altra votazione. Sono almeno 31 anni, in Eritrea, che (non) funziona così. L'Eritrea, oggi, è di fatto un regime dittatoriale, senza potere giudiziario indipendente e fonti di informazione libere. Anche per questo i più giovani e le più giovani fuggono. Lo fanno quelli che stanno meglio, quelli fisicamente più forti, gli intraprendenti, lo fa chi non ha perso la speranza.
Gli Stati europei costruiscono muri, o li rafforzano, usando tecnologie militari per impedire i passaggi delle persone. Droni, telecamere a rilevazione satellitare e raggi infrarossi. Niente, però, impedisce alle persone di provarci. Neanche i fossi, i fili spinati o le lame. Nessuna frontiera blocca i viaggi, al massimo i muri costringono le persone a cambiare la rotte, rendendo il viaggio più difficile, più lungo, più doloroso. Questo è un dato che chiunque, alla testa del comando, dovrebbe conoscere.
Ricordo un ragazzino, qualche anno fa, eritreo pure lui, dentro un trolley da viaggio, con le gambe piegate strette al petto e la testa fra le ginocchia che stavano quasi all'altezza del mento. Voleva andare in Svizzera.
Oppure quel ragazzo incastrato sotto il camion, fra la cabina di guida e la carrozzeria. Capita spesso, più spesso di quello che le cronache arrivano a raccontare.
Chi fugge per vivere, per me, avrà sempre ragione, anche se non ha il timbro sul foglietto di carta che chiedono quelli che non hanno mai avuto problemi con i timbri sui foglietti di carta.
Avrà sempre ragione chi fugge, e se riuscissimo ad alzare lo sguardo dal nostro ombelico, se riuscissimo a guardarci dalla Luna potremmo vedere un'unica Terra, con degli omini piccini picciò che passano gli anni litigando sul modo migliore per rinchiudere i loro fratelli in terre sfortunate avvalendosi di leggi inventate per l'occasione. E sarebbe molto triste, però avremmo anche l'occasione per notare che i confini sono un'invenzione, che mari e montagne non sono fatti per dividere, e che la parola "confini naturali" è bugiarda come "casa mia e casa tua". La Terra è una, dovremmo imparare da lei.
Dopotutto, la parola amore è soltanto un'altra rima di cesoia.