Sentenza della Consulta sul caso Massimiliano, cosa hanno deciso i giudici sul suicidio assistito
È arrivata una nuova sentenza della Corte costituzionale sul suicidio assistito. Decidendo sul caso di Massimiliano Scalas, affetto da sclerosi multipla di grado avanzato e accompagnato a morire in Svizzera nel 2022 da Marco Cappato, Chiara Lalli e Felicetta Maltese, la Corte non è venuta incontro alle richieste del giudice che aveva richiesto l'intervento: in sostanza, la Consulta ha confermato che accedere al suicidio assistito la persona interessata deve esser dipendente da trattamenti medici che la tengono in vista. Se non c'è questa caratteristica, il suicidio assistito è punibile.
Si tratta di una questione delicata su cui da anni i giudici chiedono che il Parlamento intervenga con una legge che chiarisca la situazione. Oggi, infatti, le ‘regole' sul suicidio assistito sono quelle che la stessa Corte costituzionale ha definito con una sentenza del 2019. Chi vuole terminare la propria vita deve: avere una malattia irreversibile; avere sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili; essere in grado di prendere decisioni libere e consapevoli; essere dipendente da trattamenti sanitari di sostegno vitale. Tutti questi requisiti, in più, devono essere accertati dal Servizio sanitario nazionale.
Il giudice per le indagini preliminari di Firenze, che ha seguito il caso di Massimiliano Scalas, aveva chiesto l'intervento della Corte sostenendo che non fosse necessario dipendere da un sostegno vitale. Chiedendo, insomma, che l'accesso al suicidio assistito fosse esteso anche a chi rispetta solo i primi tre requisiti.
Infatti, il gip ha ritenuto che questa distinzione fosse discriminatoria nei confronti di coloro non sono sottoposti a procedure mediche di sostegno vitale. Escluderli dalla possibilità del suicidio assistito violerebbe alcuni principi fondamentali: quello dell'eguaglianza, della dignità della persona e del rispetto della vita privata, per esempio. La Corte però ha stabilito che questo requisito non crea disparità di trattamento.
Il ragionamento alla base della sentenza del 2019 è questo: se una persona è dipendente da trattamenti che la tengono in vita, ha già legalmente il diritto di rinunciare a questi trattamenti (e di conseguenza di morire); quindi è "irragionevole" che non abbia accesso al suicidio assistito. Se invece una persona non ha (o non ha ancora) la possibilità di lasciarsi morire rinunciando alle cure, allora non ha diritto al suicidio assistito. Altrimenti, hanno spiegato i giudici, potrebbe nascere una "pressione sociale indiretta che possa indurre quelle persone a farsi anzitempo da parte, ove percepiscano che la propria vita sia divenuta un peso per i familiari e per i terzi".
La Corte, comunque, ha fatto due precisazioni. Innanzitutto, vanno considerati come "trattamenti di sostegno vitale" non solo quelli più invasivi o complessi, ma tutte le procedure (anche semplici, che siano svolte da operatori sanitari o anche da familiari) senza le quali una persona morirebbe in poco tempo. In più, "non vi può essere distinzione tra la situazione del paziente già sottoposto a trattamenti di sostegno vitale, di cui può chiedere l'interruzione, e quella del paziente che non vi è ancora sottoposto, ma ha ormai necessità di tali trattamenti per sostenere le sue funzioni vitali".
L'associazione Luca Coscioni ha fatto sapere che, in base a questa interpretazione, "dovranno essere considerate dipendenti da trattamenti di sostegno vitale anche Martina Oppelli e Laura Santi". Anche il caso delle due è finito davanti alla Consulta, nelle scorse settimane.