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Se Piantedosi non sa gestire sbarchi e profughi non è il caso che stia al Viminale

Alle navi delle Ong vengono assegnati porti sempre più lontani e il ministro dell’Interno se ne vanta, parlando di equa distribuzione e sostenendo che Sicilia e Calabria non possono essere campi profughi: oltre a tralasciare le regole di base del soccorso in mare, Piantedosi ignora che la responsabilità nella gestione dei sistemi di accoglienza è proprio del suo ministero.
A cura di Roberta Covelli
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In questi tre mesi di governo Meloni, le navi delle Ong hanno continuato a fare quel che facevano nei mesi precedenti nel Mediterraneo centrale: soccorrere naufraghi, come prescrive il diritto del mare. Nelle ultime settimane, però, i porti assegnati sono stati sempre più distanti dal luogo di soccorso: prima Ravenna e Livorno, ora Ancona. Questo comporta ulteriori sofferenze per i naufraghi a bordo (spesso già provati, oltre che dalla traversata, da stupri e torture subiti in Libia) e l’assenza di navi che si occupino di ricerca e soccorso nel Mediterraneo centrale (che, tradotto, significa che ci saranno persone che moriranno annegate, pur potendo essere salvate). Ma lasciamo da parte l’umanità, e limitiamo l’analisi alla logica e al diritto.

Le "disposizioni urgenti" del decreto Ong: le navi devono arrivare in orario

Il primo atto governativo del nuovo anno è un decreto legge, firmato da Meloni, Piantedosi, Nordio, Salvini, Tajani, Crosetto. Pur promettendo nella rubrica "Disposizioni urgenti per la gestione dei flussi migratori", il decreto in questione si occupa di regolare le modalità di soccorso in mare, non senza errori giuridici già commessi in altre occasioni.

A leggerle in questi giorni, in cui Ocean Viking e Geo Barents devono percorrere più di 1.500km nell’Adriatico, sottoponendo i naufraghi a bordo ad almeno quattro giorni di navigazione per raggiungere il porto, le disposizioni del decreto Ong sembrano una presa in giro, visto che l’enfasi è sul raggiungimento del porto di sbarco "senza ritardo".

Gli appunti di Giorgia: la propaganda di Meloni non stupisce

Anche riascoltare "Gli appunti di Giorgia", sul tema delle Ong, pare beffardo.

Se ti imbatti in un'imbarcazione e salvi delle persone le devi portare al sicuro, e quindi non le tieni a bordo della nave mentre continui a fare altri salvataggi multipli fino a che la nave non è piena. Perché quello non vuol dire mettere la gente al sicuro né salvataggio fortuito di naufraghi.

È difficile trovare coerenza tra il rimprovero alle Ong di ritardare gli sbarchi, per soccorrere altri naufraghi, e la prassi di assegnare porti distanti centinaia di chilometri alle navi, che, per imposizione amministrativa, ritardano gli sbarchi stessi. Ma il video de Gli Appunti di Giorgia non è altro che un format di propaganda, la presidente del Consiglio se ne serve, come suoi predecessori, per illustrare le proprie azioni senza il fastidio delle domande, quindi certo l’incoerenza tra affermazioni e realtà non è inaspettata. Risulta invece più difficile accettare che un ministro con il profilo tecnico di Matteo Piantedosi faccia dichiarazioni sugli sbarchi come quelle pronunciate negli ultimi giorni.

Interpellato sull’assegnazione dei porti di Ancona, Ravenna e Livorno, il ministro Piantedosi ha giustificato la scelta delle autorità, sostenendo che "Per quanto riguarda questo Governo e questo ministero, la Sicilia e la Calabria non devono essere condannate ad essere il campo profughi dell'intera Europa". In aggiunta, il ministro si è vantato dell’equa distribuzione degli sbarchi tra i diversi porti italiani.

Ma queste dichiarazioni dimostrano che il ministro Piantedosi ignora la differenza tra lo sbarco dei naufraghi e la redistribuzione dei profughi, due fasi distinte che non possono essere confuse.

Soccorrere è un dovere, essere soccorsi è un diritto

Il soccorso in mare si basa su una serie di norme di diritto internazionale. Le convenzioni e i trattati sono diversi, ma la regola è semplice: in mare, se ci sono vite in pericolo, chiunque è obbligato a prestare soccorso. Il soccorso in mare è un dovere generale, ma anche un diritto universale: un naufrago deve essere sempre soccorso, e le sue condizioni personali o giuridiche sono irrilevanti. Che si tratti di un miliardario a cui è affondato lo yacht o di un sudanese su un gommone che imbarca acqua, il naufrago deve sempre essere soccorso. E il soccorso si conclude con lo sbarco nel POS, il place of safety, il porto (o posto) sicuro.

Sbarco e redistribuzione sono questioni distinte

Lo scopo del soccorso è il soccorso. Questo vale per una nave che raccolga naufraghi in mare come per un’ambulanza. Se il 118 viene chiamato per un incidente, trasporta i feriti all’ospedale più vicino, non aspetta di fare la constatazione amichevole. Prima si soccorre, poi tutto il resto.

Nel caso dei flussi migratori, o, meglio, nel caso di naufraghi che abbiano diritto di chiedere asilo o protezione internazionale, "tutto il resto" è la redistribuzione, così che l’analisi delle richieste di protezione e i percorsi di accoglienza siano gestiti in maniera diffusa. Ma la redistribuzione, è il caso di ribadirlo, si fa all’asciutto, quando chi deve essere curato è stato curato, quando chi poteva chiedere protezione l’ha fatto. Prima si sbarca, poi si redistribuisce.

La redistribuzione di chi ha diritto di protezione o di chiedere asilo dipende da una serie di regole che, negli ultimi anni, sono state cambiate diverse volte. Le norme originarie sono quelle della legge Bossi-Fini (la cui matrice insomma è affine a quella dell’attuale governo) e sono relative al cosiddetto SPRAR (Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati). Il decreto Salvini ha poi sostituito questo sistema con il SIPROIMI (Sistema di protezione internazionale e per minori stranieri non accompagnati), poi modificato ulteriormente in SAI. Al netto delle differenze di acronimi e questioni burocratiche, è rimasto invariato il responsabile dei progetti di accoglienza, e quindi anche della redistribuzione sul territorio: la competenza di questi sistemi è del Viminale. E oggi, al Ministero dell’Interno, c’è Matteo Piantedosi.

Chi dovrebbe evitare che Sicilia e Calabria siano campi profughi?

Si dirà che il ministro Piantedosi si è insediato al Viminale tre mesi fa. Certo, ma da più di un decennio, a vario titolo, collabora con il Ministero dell’Interno: tra i vari ruoli, è stato anche vice-capo di Gabinetto nel 2012 e capo di Gabinetto nel 2018, con il governo gialloverde e Salvini ministro. Davanti a una carriera simile viene da chiedersi se Piantedosi si è accorto che lamentarsi che Sicilia e Calabria siano campi profughi equivale a un’implicita autocritica: è il Viminale a dover programmare e gestire i sistemi di protezione internazionale. E, certamente, non è il caso di spostare l’onere di distribuzione delle persone in una fase di estrema vulnerabilità come quella successiva a un naufragio, durante il soccorso in mare. Il diritto internazionale, insieme alle dichiarazioni sui diritti umani (che peraltro riconoscono il diritto d’asilo e la libertà di movimento), lo spiega chiaramente. Ribadiamolo: prima si soccorre, poi tutto il resto.

Ma davvero il ministro Piantedosi non coglie queste ovvie nozioni normative, oltre che logiche e di umanità? Dopotutto, con una laurea in giurisprudenza e una carriera di tutto rispetto tra Viminale e prefetture, dovrebbe conoscere il diritto. È lecito anzi aspettarsi che chi così a lungo ha ricoperto e ricopre importanti ruoli di tutela della pubblica sicurezza abbia una profonda sensibilità democratica, cerchi di risolvere questioni complesse avendo ben chiari i princìpi del nostro ordinamento e della comunità umana. C’è allora un’ipotesi più inquietante da tenere in considerazione: che il ministro Piantedosi sia pienamente consapevole della differenza tra soccorso di naufraghi e redistribuzione di profughi, che sappia che la competenza e la responsabilità del sistema di accoglienza è del suo ministero, che capisca che le lungaggini burocratiche e le illogicità applicative derivano da leggi che la destra ha scritto e varato, ma che, pur sapendo tutto questo, accetti questa realtà. E che, anzi, con le sue azioni e dichiarazioni, aderisca alla propaganda di governo, sulla pelle di naufraghi in mezzo al mare.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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