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Se non vuoi la guerra, prepara la pace: perché dovremmo riscoprire la nonviolenza

Il nuovo anno si apre con lo spettro della guerra, in Iraq ma non solo. Il dramma non è soltanto umanitario, ma anche politico: si discute di escalation, fazioni, missili, strategie militari, ma sembra quasi ridicolo nominare la pace, o, meglio, la nonviolenza, eppure ne avremmo tremendamente bisogno.
A cura di Roberta Covelli
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Spirano venti di guerra: l’anno è iniziato con l’uccisione del generale iraniano Soleimani, fieramente rivendicata da Donald Trump, vede oggi la risposta missilistica di Teheran contro le basi Usa in Iraq. Ma non è l’unico fronte bellico aperto: sulla drammatica situazione libica decide di schierarsi militarmente anche la Turchia di Erdogan, mentre Iraq e Siria non hanno mai smesso di subire la guerra e l’Afghanistan non è in una situazione migliore, nonostante la pace dichiarata. E ci sono poi le guerre di cui non si parla: la tensione, con timori nucleari, tra India e Pakistan, la Birmania, il Sud Sudan, la Repubblica Centrafricana, lo Yemen…

Non viviamo la guerra ma ne siamo immersi, anche ideologicamente: si discute di escalation, missili, strategie militari, ma sembra quasi ridicolo nominare la pace, o, meglio, la nonviolenza. Eppure di nonviolenza avremmo tremendamente bisogno.

La nostra Costituzione sul punto è chiara: l’Italia ripudia la guerra. E ripudiare non è certo un verbo debole: non è una negazione blanda, o passiva, o vile, ma è un rifiuto attivo, con forza, della violenza. Forza e violenza non sono infatti sinonimi: si può essere forti senza usare violenza. E la storia lo dimostra: le uniche rivoluzioni che abbiano avuto una qualche speranza di successo, che non abbiano avuto in sé il germe della repressione o della restaurazione, sono state lotte nonviolente per ottenere libertà e diritti, dall’uscita del Sudafrica dall’apartheid all’indipendenza indiana, dalla resistenza antinazista danese e norvegese al cammino contro la segregazione razziale.

Salvo lodevoli eccezioni, però, la situazione in cui si trova il mondo oggi è una realtà nella quale la nonviolenza non è mai stata davvero applicata. Contro la guerra e la violenza si è visto al massimo un vuoto pacifismo di facciata e dichiarazioni di intenti istituzionali che si scontrano con le scelte politiche: l’Unione europea che si preoccupa oggi della situazione in Libia e in Iran (e Iraq) è la stessa che ha fatto accordi con Erdogan per evitare arrivi di migranti e profughi, ignorandone le violazioni di diritti, o che effettua rimpatri in Afghanistan, mentre l’Italia affida alle milizie libiche le sorti dei naufraghi nel Mediterraneo, accettando tacitamente che la loro sorte preveda torture e lager. E le Nazioni Unite, che all’indomani della Seconda guerra mondiale affermarono solennemente nel proprio statuto di voler "salvare le future generazioni dal flagello della guerra", che cosa hanno fatto e che stanno facendo per costruire la pace?

La pace non è una soluzione immediata, una benedizione che arrivi senza azione o raggiungibile attraverso la guerra: non esistono missioni di pace, non esistono guerre umanitarie. E non esiste nemmeno l’assenza di conflitto: la nonviolenza passa proprio da questa consapevolezza, dall’accettazione delle divergenze e dalla capacità di affrontarle senza offendere, far violenza, annientare l’altro.

Il drone che ha ucciso il generale iraniano, i missili che colpiscono le basi di al-Asad ed Erbil, le bombe che ammazzano civili in Siria, in Yemen, le mine che smembrano afghani e iracheni: la guerra colpisce chi la subisce, ma anche chi la fa e chi assiste. La guerra inquina i rapporti, impedisce il progresso imponendo e cristallizzando la violenza, che dal campo di battaglia permea l’intero contesto sociale: "l’oggetto della guerra non è quello di prevenire o di fare conquiste territoriali, bensì quello di mantenere intatta la struttura della società", si legge in un celebre romanzo distopico.

La struttura della nostra società non è forse immersa in una violenza sistematica, a volte manifesta, a volte talmente cristallizzata da apparire normale? Abbiamo diritti sociali, eppure accettiamo alti tassi di disoccupazione, disuguaglianze sociali ed economiche, povertà per intere fette di popolazione. All’umano bisogno di sicurezza la politica risponde attizzando le paure ataviche, contro il diverso, l’estraneo, lo straniero, sclerotizzando le divisioni sociali, spesso liberalizzando la vendita di armi o giustificando in ogni caso il ricorso a esse, aumentando così i pericoli contro le persone. E mentre le nuove tecnologie permettono la comunicazione agevole e il superamento delle frontiere, le possibilità di partecipazione si perdono invece in una politica carica d’odio, che spesso basa il consenso su distorsioni retoriche, e che comunque si inserisce in una violenza strutturale, di sistema.

La nonviolenza non può impedire che il presidente degli Stati uniti ammazzi un suo avversario con un azzardo bellico, ma è essenziale per la costruzione di una società che ripudi sul serio la guerra, e bandisca con essa ogni violenza che soffoca l’umanità.

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Nata nel 1992 in provincia di Milano. Si è laureata in giurisprudenza con una tesi su Danilo Dolci e il diritto al lavoro, grazie alla quale ha vinto il premio Angiolino Acquisti Cultura della Pace e il premio Matteotti. Ora è assegnista di ricerca in diritto del lavoro. È autrice dei libri Potere forte. Attualità della nonviolenza (effequ, 2019) e Argomentare è diabolico. Retorica e fallacie nella comunicazione (effequ, 2022).
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