In conferenza stampa Ignazio Marino è stato sibillino, ma al tempo stesso eloquente: "Dal Pd 26 coltellate e un solo mandante". Di mandante parla Marino, un termine che pare essere stato scelto con estrema cura, una definizione pesante e molto precisa, che ci riporta alla memoria le "Idi di marzo" e e il celebre "Tu quoque, Bruto, fili mi" pronunciato da Cesare in punto di morte. Una morte politica violenta, quella di Marino. Una lenta agonia cominciata con lo scoperchiamento dell'inchiesta "Mafia Capitale" e proseguita sotto il fuoco incrociato degli attacchi dell'opposizione capitolina, dapprima, con la delegittimazione di Papa Francesco, poi, e infine terminata con chirurgica precisione dai compagni di partito, trasformatisi dal giorno alla notte da entusiasti sostenitori del sindaco di Roma ad acerrimi nemici del "marziano". Il tutto accade per mano di un innominabile mandante, che risponde al nome di Matteo Renzi.
"A Roma la linea dei grillini non cambia: attaccare il Pd e dimettere Ignazio Marino. Segnalo con affetto che è la stessa linea della mafia", scriveva Matteo Orfini il 27 marzo di quest'anno. Parole pesanti, che il commissario del Partito Democratico romano pare aver dimenticato. C'è da rimanere spiazzati, infatti, leggendo le cronache politiche di pochi mesi fa e le attuali dichiarazioni che da qualche ora si stanno rincorrendo in tv, sui giornali, sui social network da parte degli esponenti del Pd romano. Contro Marino, il 12 ottobre e infine oggi, è stata applicata la stessa linea "grillina" tanto criticata solo pochi mesi fa, quando il Pd sosteneva con fermezza che allontanare Marino dalla scranno del Campidoglio avrebbe sortito come unico effetto quello di riportare Roma nelle mani di Mafia Capitale.
Non contento, il 10 giugno, Orfini dichiarò: "L'ipotesi di dimissioni del sindaco Marino non esiste e non è mai esistita. Noi abbiamo il dovere di continuare a governare per sconfiggere la criminalità e far funzionare meglio la città: questo è quello che ci hanno chiesto i cittadini votandoci ed è quello che faremo". Dodici settimane dopo, Orfini, lo stesso Orfini inviato solo pochi mesi a Roma per sostenere Marino e difendere a spada tratta il sindaco dalle bordate dei grillini, di Casapound e del centrodestra romano, improvvisamente inserisce la retromarcia e impone le dimissioni al sindaco di Roma, cogliendo la palla dei rendiconti "gonfiati" al balzo, il 12 ottobre scorso, trasformandosi nel boia politico del primo cittadino di Roma. Marino in quell'occasione lo disse: "Rassegno le mie dimissioni, ma sappiate che ho venti giorni di tempo per ritirarle, come prevede la procedura". Detto, fatto. Il 29 ottobre, con un tweet, Marino fa sapere di averci ripensato. E così, il Partito Democratico è costretto a mettere in scena il secondo atto del suo psicodramma politico procedendo alla febbrile ricerca di 26 consiglieri comunali disposti a dimettersi per poter sfiduciare il sindaco impenitente. Operazione riuscita. Marino viene silurato dal fuoco amico, Roma commissariata e a guidare la città in attesa delle elezioni approda il Prefetto di Milano, Francesco Paolo Tronca.
E così, dopo il sereno Letta, l'ennesimo agnello sacrificale è stato mietuto. Un'epurazione in pieno stile House of Cards, firmata "Il Mandante".