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Sardine, perché fare l’Erasmus nelle Regioni italiane non è affatto una proposta da buttare

Le sardine hanno proposto al ministro per il Sud Provenzano di istituire una sorta di Erasmus tra le Regioni italiane: “Perché un napoletano non può farsi sei mesi al Politecnico di Torino e un torinese sei mesi a Napoli?”. L’idea ha suscitato subito ilarità sui social. Non è detto che possa servire per risolvere il divario tra Nord e Sud. Ma perché non utilizzare questo strumento per tamponare il problema?
A cura di Annalisa Cangemi
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La proposta delle sardine al ministro per il Sud Giuseppe Provenzano ha suscitato una immediata e spontanea ilarità. Seguire il modello del progetto Erasmus, ma farlo entro i confini nazionali, è apparsa un'assurdità. Tanto che sui social molti utenti si sono scatenati con post derisori, che alludono a improbabili periodi di istruzione o di lavoro in altrettanto improbabili luoghi sperduti della Penisola. Che sembrano ancora più grotteschi se paragonati all'assai più attrattiva Amsterdam, o alla sempre gettonata Barcellona.

Sembra uno scherzo, oltre che del tutto anacronistico, il voler riproporre una versione aggiornata di Totò e Peppino a Milano davanti al Duomo, scambiato per il teatro alla Scala, nella celebre scena in cui fratelli Caponi chiedono indicazioni al ‘generale austriaco' (che altro non è se non un vigile urbano). La storia del cinema italiano del resto è piena di simili sketch, da Ficarra e Picone a Checco Zalone, che declinano in vari modi il cliché del giovane ignaro del mondo che si avventura nella grande città. E di certo se questo personaggio, a prescindere da chi lo interpreti, è ben presente nell'immaginario collettivo è facile che sia il primo riferimento a venire in mente quando Mattia Santori, uno dei fondatori del movimento spontaneo delle sardine, illustra la proposta che lui e gli altri attivisti hanno discusso con il ministro Provenzano: "Perché non ripristinare fin dall'Università una sorta di Erasmus tra regioni del Sud e del Nord? Perché un napoletano non può farsi sei mesi al Politecnico di Torino e un torinese sei mesi a Napoli o a Palermo per studiare archeologia, arte, cultura o diritto?". L'idea però non è da cestinare, ed è forse meno ingenua di quanto si possa pensare. Non è detto che sia la cura per la malattia, cioè il divario tra Nord e Sud, che è sicuramente un problema complesso e strutturale del nostro Paese. Ma perché non utilizzarla come antidolorifico?

Gli scambi tra atenei come antidoto ai ‘bamboccioni'

Sembra passata un'eternità da quando è stato eliminato il servizio militare di leva obbligatorio (dal 1972 venne introdotta la possibilità di scegliere il servizio civile in alternativa a quello militare) e invece sono passati appena 15 anni. Intere generazioni di italiani, per 143 anni, volenti o nolenti, sapevano che al raggiungimento della maggiore età avrebbero dovuto mettere un piede fuori da casa, e uscire dalla propria comfort zone. Lungi da noi, ça va sans dire, rievocare con nostalgia un passaggio imposto in modo coatto ai giovani, riesumando una pratica desueta e ampiamente superata: non c'è più bisogno, per fortuna, di un gran numero di soldati, visto che non abbiamo più "le truppe che vengono dalle Alpi", come aveva prontamente ricordato l'ex ministra della Difesa Elisabetta Trenta replicando a Matteo Salvini, che del ritorno alla ‘naja' è sempre stato un sostenitore. Ma è pur vero che quello step formativo non c'è più, e anche se l'Europa e il Mondo sembrano ormai a portata di mano, non sempre le famiglie hanno i soldi per mandare i propri figli a studiare fuori, sobbarcandosi anche spese ingenti per pagare affitti stellari a Roma, a Bologna o a Milano. Ecco quindi che l'introduzione di una borsa per frequentare per qualche mese un ateneo diverso dal proprio può diventare un'interessante opportunità per molti studenti.

Se ancora oggi i ragazzi vengono accusati di essere dei ‘bamboccioni', per citare la famosa definizione del 2007 del ministro dell’Economia Tommaso Padoa-Schioppa, e non riescono a rendersi indipendenti prima dei 35-40 anni, è anche perché, rispetto ai cugini di altri Paesi europei, hanno anche meno possibilità economiche per muoversi e avere contatti con altre realtà. Al momento della laurea, conseguita nella stessa città in cui è nato e cresciuto, uno studente italiano avrà con sé uno scarso bagaglio di esperienze, e sarà quindi meno attrezzato per affrontare il mondo del lavoro.

Gli atenei non sono tutti uguali

Considerazioni queste che vanno lette anche tenendo presente il gap che esiste tra gli Atenei. Le Università non sono tutte uguali. Quest'estate ‘La Repubblica', insieme al Censis, ha stilato una classifica degli atenei statali, prendendo in esame alcuni parametri, come le strutture, i servizi o il livello d'internazionalizzazione. Per esempio, considerando solo i poli più grandi, cioè quelli con oltre 40.000 iscritti, la migliore università del 2019 è quella di Bologna, seguita nell'ordine da Padova, Firenze, La Sapienza di Roma, l'Università di Torino e poi quella di Pisa. Ultima tra i mega atenei statali è l'Università di Napoli Federico II, preceduta dall'Università di Catania. Va da sé che la possibilità di seguire alcuni corsi in una delle strutture più quotate non potrà far altro che arricchire il percorso accademico di un laureando.

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Giornalista professionista dal 2014, a Fanpage.it mi occupo soprattutto di politica e dintorni. Sicula doc, ho lasciato Palermo per studiare a Roma. Poi la Capitale mi ha fagocitata. Dopo una laurea in Lettere Moderne e in Editoria e giornalismo ho frequentato il master in giornalismo dell'Università Lumsa. I primi articoli li ho scritti per la rivista della casa editrice 'il Palindromo'. Ho fatto stage a Repubblica.it e alla cronaca nazionale del TG3. Ho vinto il primo premio al concorso giornalistico nazionale 'Ilaria Rambaldi' con l'inchiesta 'Viaggio nell'isola dei petrolchimici', un lavoro sugli impianti industriali siciliani situati in zone ad alto rischio sismico, pubblicato da RE Le Inchieste di Repubblica.it. Come videomaker ho lavorato a La7, nel programma televisivo Tagadà.
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