San Patrignano non è mai stata un modello: un drogato non è un malato, le catene sono una vergogna
La serie Netflix SanPa, che racconta la nascita e lo sviluppo nell'Italia degli anni '80 della Comunità di San Patrignano e il suo fondatore Vincenzo Muccioli, potrebbe avere il merito di aprire un dibattito sulle sostanze stupefacenti e le politiche sulle droghe nel nostro Paese. Purtroppo invece il dibattito che ne è nato parte da due presupposti entrambi errati. Il primo è che con l'esplosione dell'eroina in Italia San Patrignano e comunità private nate sugli stessi presupposti, fossero gli unici a farsi carico delle tossicodipendenze, mentre lo Stato latitava. Il secondo è che comunque i metodi coercitivi, le catene, le umiliazioni, gli schiaffi siano comunque giustificabili per un fine più alto, ovvero il "bene" del tossico/recluso. Le questioni invece sono molto più complicate di così, e vale la pena affrontare un tema così difficile come quello della dipendenza da sostanze stupefacenti dando voce a chi da decenni se ne occupa, facendo scelte diametralmente opposte a quelle di San Patrignano che è tutt'altro che l'unico modello possibile. Domenico "Megu" Chionetti della Comunità di San Benedetto al Porto di Genova, continua a portare avanti il lavoro di Don Andrea Gallo, e ci tiene a chiarire che le "comunità non sono tutte uguali". Quella fondata dal Gallo è una comunità di "accoglienza", molto diversa da quella di San Patrignano, qui "non ci sono catene, né porte chiuse a chiave, nessuno è costretto a restare". "Tagliare i contatti con l'esterno, recludere le persone, imporre un ordine e una disciplina che annullano le storie e i vissuti di chi ha una dipendenza, questo non è di certo il nostro modello – spiega Megu – Noi non vogliamo che le persone cancellino le loro vite, le ragioni e i percorsi che li hanno portati a drogarsi. Perché un tossicodipendente per noi non è un debole, un pazzo o un malato, non è un essere inferiore su cui imporre la nostra volontà".
Il veterano della Comunità di San Benedetto sceglie di usare una metafora di un strofa di Vasco Rossi: "Ci piace pensare che chi fa un percorso con noi un giorno potrà sorridere dei suoi guai, ma senza cancellare la sua vita, senza che nessuno lo riprogrammi annullandolo. La dignità e la libertà di ognuno di noi passano per la scelta individuale". Claudio Cippitelli è invece sociologo e il presidente della Cooperativa Sociale Parsec di Roma, che da decenni si occupa di riduzione del danno e dipendenze. "Prima c'erano solo due approcci: quello del Sert che con il farmaco di sostituzione, il metadone, medicalizzava il tossicodipendente trattandolo solo come un malato, e poi le comunità che pretendevano e pretendono di ricostruire la persona che vi entra cancellando l'esperienza della tossicodipendenza, la sua identità e la sua storia". Le famiglie di solito sceglievano la comunità: i figli magari non finivano in galera né si ammalavano, ma soprattutto "la sofferenza era rimossa da loro davanti, il problema delegato a chi presupponevano avesse gli strumenti per affrontarlo".
"Tutto cambia con l'arrivo dell'Aids – spiega Cippitelli – In quel momento si comincia a lavorare sulla riduzione del danno, salvando decine di migliaia di vite. Ci sono soggetti come noi di Parsec che cominciano a lavorare sui territori, nei quartieri delle città, senza pensare di estraniare il ‘tossico' dal suo contesto, anzi valorizzandone il vissuto e l'esperienza". La fuoriuscita dal consumo non viene affidata a un leader carismatico come in comunità, ma passa per la volontà individuale, nuovi servizi si strutturano in alleanza e non in contrapposizione con il servizio sanitario e i Sert, il metadone diventa non lo strumento ma uno degli strumenti.
Ed ecco l'altro nodo della questione: il rapporto con le istituzioni e il Servizio sanitario nazionale. "Il servizio pubblico è fondamentale, le istituzioni non si possono ritirare come sta accadendo dai servizi per la tossicodipendenza affidandole a strutture private. – racconta Domenico Chionetti – È una questione prima di tutto di giustizia sociale, altrimenti solo chi ha il denaro per farlo può disintossicarsi se lo vuole, e poi è un problema di trasparenza: per noi il servizio sanitario nazionale è il primo referente e alleato, cosa succede invece in comunità chiuse all'esterno? Rischiamo che rimangano invisibili e senza nessun controllo". Cosa succede poi quando si esce della comunità? E soprattutto chi non è stato "salvato" dall'esperienza in comunità che fine fa? "Gli spariamo? Lo abbandoniamo?". Megu sceglie una metafora per spiegare la necessità di servizi sui territori e di prossimità: "C'è un pesce che si ammala perché si trova in uno stagno inquinato, lo tolgo dallo stagno e lo metto in un acquario bello pulito e guarisce, poi lo rimetto nello stagno e che succede? Si ammala di nuovo". Welfare, percorsi lavorativi e di inserimento, senza una società meno diseguale chi vuole combattere la propria dipendenza avrà più difficoltà in molti casi. Fuori dalla cultura proibizionista il "tossico" non viene stigmatizzato né perseguitato, benché meno ci si arroga il diritto di sostituirsi con la coercizione alla sua volontà. "La scelta è sempre della persona, anche quando questa non ci piace". Non solo San Patrignano non è l'unico modello di presa in carico delle tossicodipendenze possibile, ma ha rappresentato in questi anni uno dei testimonial delle politiche proibizioniste, che hanno visto andare di pari passo la penalizzazione del consumo, l'aumento della carcerazione della popolazione di consumatori, l'equiparazione di droghe leggere e droghe pesanti, e il parallelo indebolimento dei servizi.