C’è una domanda che da tempo resta sospesa quando si parla di Matteo Salvini, leader della Lega Nord e personaggio politico “divisivo” per eccellenza: qual è il suo piano, dove vuole arrivare? Lui ripete spesso di ritenersi pronto alla guida del Paese, anche se, ormai da qualche mese, i sondaggi sembrano indicare una certa stabilizzazione del consenso per la Lega Nord, quantificabile in una forbice fra il 10 e il 15 percento. Inoltre, nonostante da mesi Salvini sembri alzare costantemente l’asticella dello scontro, inasprendo i toni e, di pari passo, provi ad allargare lo spazio della sua azione politica, il bacino potenziale dell’elettorato cui parla il leader leghista non supera il 20 – 25%. Con questi numeri e, per giunta, con un sistema elettorale proporzionale, quelle di Salvini sono semplici velleità, a meno di improvvisi cambi di scenario che in qualche modo riguardano Silvio Berlusconi, che certamente non è il miglior alleato possibile, quanto a disponibilità a farsi da parte e far confluire il suo seguito elettorale nel progetto salviniano.
Salvini, contrariamente a quanto possa sembrare, pianifica con grande attenzione le proprie mosse e, in effetti, la sua strategia di lungo periodo sembra tener conto dello scenario che abbiamo descritto. Così, al superamento della dimensione territoriale della proposta leghista, Salvini ha abbinato il rafforzamento della piattaforma programmatica e il definitivo superamento dell'ambiguità del "né di destra né di sinistra", scegliendo chiaramente la collocazione del suo soggetto politico, nel campo sovranista della "nuova destra del triumvirato Le Pen – Trump – Putin".
L'addio al progetto Lega Nord nasce anche dalla considerazione di essere nel tempo del partito personale, quello in cui conta sovrapporre l'immagine del leader al progetto politico. Che sia lettura corretta o meno, importa relativamente, dal momento che tale suggestione guida le pratiche politiche e, soprattutto, la comunicazione dell'europarlamentare.
Ne avevamo scritto qualche tempo fa, cercando di individuare le caratteristiche del "fenomeno Salvini":
Il leader della Lega è l'emblema dello spontaneismo e si muove in un ambiente in cui la sincerità, la reazione istintiva, la schiettezza, l'efficacia dello slogan hanno preso il posto tradizionalmente occupato dalla "verità dei fatti". Un piano nel quale la sincerità del politico, la sua integrità e la sua intransigenza, bastano a renderlo "credibile", degno di fiducia e di appoggio, al di là della sua preparazione e del suo essere capace di risolvere davvero i problemi concreti. È un piano nel quale non c'è posto per l'eccessiva elaborazione teorica, per l'eloquio forbito o per la conoscenza specifica degli argomenti, che vengono sostituite dallo slogan, dalla ricetta cotta e mangiata, dalla soluzione a portata di mano. Il messaggio di Salvini riflette le caratteristiche basilari del “discorso vittimista”: la deresponsabilizzazione, il rifiuto della complessità, il machismo di ritorno, la gogna pubblica per chi sbaglia, la doppia morale su mediazioni e compromessi, l’egoismo "nazionale" e la cura del proprio particulare.
Vittimismo e aggressività sono i due "cavalli" della narrazione salviniana, che ha avuto una escalation nei toni e nei metodi negli ultimi mesi. Il confine fra provocazione e proposta politica si è assottigliato sempre di più, così come quello fra schiettezza e violenza verbale. Salvini è sempre, costantemente, sopra le righe, in trincea, pronto alla scontro. Caratteristiche che ne fanno l'antagonista perfetto, oltre che l'ospite privilegiato delle trasmissioni televisive che campano sull'esasperazione dei toni, sulla rissa mediatica, sulla semplificazione dei concetti.
Una linea del genere comporta il rischio di contestazioni radicali e di una ulteriore polarizzazione dello scontro, come avvenuto in occasione della sua visita a Napoli. Centri sociali e cittadini hanno dato vita alla prima vera manifestazione "contro Salvini", che si è sviluppata con l'occupazione della sede scelta per il comizio, con un corteo, con scontri con la polizia, ma anche con una vasta mobilitazione "politica" sui social network, che ha visto l'adesione di un fronte molto ampio, con composite rivendicazioni: contro la sua presenza in città si è mobilitata la rete antirazzista e quella antagonista, ma anche i "neoborbonici", i meridionalisti, oltre che, appunto, centinaia di esponenti della cosiddetta società civile.
Se però la contestazione ha assunto i caratteri di un vero e proprio "caso politico", la responsabilità (o il merito, a seconda) è del Sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che ha spostato lo scontro sul piano istituzionale, legittimando più o meno direttamente anche la linea oltranzista del "Salvini non deve parlare". La tesi della città desalvinizzata, del "cacciare Salvini da Napoli", del foglio di via per chi espone concetti razzisti è stata alla base della contestazione napoletana ed è stata utilizzata proprio per rafforzare la componente vittimista della narrazione del leader leghista.
La desalvinizzazione ha finito con il soggiogare completamente un altro concetto, ben più interessante: quello dell'opposizione alla "normalizzazione di Salvini", ovvero all'accettare senza obiezioni una narrazione della realtà fatta di contrasti, di odio, di intolleranza e di un continuo alzare l'asticella del "politicamente e umanamente consentito". Che è il rifiuto della versione "edulcorata" della politica di Salvini, in definitiva.
Il risultato è stato un enorme cortocircuito, in cui ogni cosa ha finito con l'essere inserita nel gigantesco frullatore delle opinioni spacciate per tavola della legge: la sacrosanta tutela della libertà d'espressione sembrava valesse solo per Salvini e non per i "contestatori"; il doveroso intervento del ministro Minniti per garantire l'agibilità a un leader di partito è stato interpretato (addirittura dal Sindaco di Napoli) come un atto di arbitrio, una imposizione, un esproprio; il rifiuto della violenza dei concetti e delle parole è diventato un lasciapassare per la contestazione violenta; il corteo pacifico e ironico, animato da migliaia di cittadini e militanti dei centri sociali, la vera notizia della giornata, è stato oscurato dal solito film visto e rivisto, fatto di scaramucce tra una ventina di soggetti e la polizia, col solito codazzo di polemiche politiche e rimpalli di responsabilità; dopo aver contestato per giorni l'essenza stessa della visita del leader leghista, de Magistris e parte della sua maggioranza hanno sostenuto che il problema era semplicemente l'utilizzo di una struttura pubblica di proprietà del Comune; Salvini, che è in televisione praticamente sette giorni su sette, ha gridato alla censura e alla mancanza di spazi, mentre parallelamente i contestatori venivano accusati di aver fatto il suo gioco "regalandogli ulteriore visibilità".
Tutto e il contrario di tutto, insomma. In sottofondo, a parere di chi scrive, il trionfo del discorso vittimista, che troppo spesso avviluppa le considerazioni intorno alla città di Napoli. Il vittimismo di Salvini, che non si assume la responsabilità della carica di violenza dei concetti che esprime, mascherando con "buonsenso" e schiettezza la riproposizione del classico repertorio della destra europea. Quello di de Magistris, che non porta fino in fondo le implicazioni della "desalvinizzazione" caldeggiata e fomentata, prendendosela col Governo e trasformandosi in un veterodemocristiano nel commentare gli scontri e le devastazioni post corteo. Quello di chi userebbe qualunque occasione per declinare in termini di vittima – carnefice la questione meridionale. Quello di chi si appella a un coro da stadio, a una battuta, per nascondere la propria pochezza di argomenti. Quello di chi pensa che qualche cassonetto rovesciato sia ragione sufficiente a bollare come violento un corteo di migliaia di persone. Quello di chi contesta chi ha contestato Salvini, appellandosi al solito benaltrismo ("ma perché non manifestate contro la camorra?"). Quello, infine, di chi nega il carattere illiberale e antidemocratico di alcune rivendicazioni, dimenticandosi che, prima della desalvinizzazione, c'è stata la derenzizzazione, il "cacciare" un politico dalla città. Concetto politicamente aberrante, a parere di chi scrive.