Romano Prodi, dunque. Un nome stavolta votato all'unanimità dai grandi elettori del Partito Democratico, l'unico in grado di permettere di salvare la faccia ad un gruppo dirigente che ha collezionato errori e scivoloni. Come nel 2006, verrebbe da dire. Quando, dopo averlo elegantemente spedito a Bruxelles, affidando prima il Governo a D'Alema, poi costringendo gli elettori a digerire l'avventura di Francesco Rutelli, i dirigenti di Ds e Margherita si cosparsero il capo di cenere e chiesero al Professore di condurli a quella che poi sarebbe stata la mezza vittoria delle politiche del 2006. Una indicazione avvenuta con un lungo applauso, anche se, per citare Giulio Cavalli "era l’applauso liberatorio di una riparazione dopo il disastro: non scambiamo il sollievo per giubilo, per favore".
Già, perché l'indicazione dell'ex Presidente del Consiglio, l'unico ad aver battuto per ben due volte Silvio Berlusconi alle urne, lascia aperto ben più di un interrogativo. Per la modalità con cui è arrivata, per il percorso schizofrenico dei dirigenti democratici, per la tempistica imbarazzante, degna del Tafazzi dei giorni migliori. La scelta di Marini, infatti, rispondeva alla necessità di trovare una "larga intesa" fra le forze politiche, con un candidato "gradito" al Cavaliere e ai montiani. Anche in quel caso, come abbiamo avuto modo di dirvi, magari sarebbe stato più saggio optare per una figura "distante" dall'apparato del Partito, non compromessa (al di là della caratura morale che non è in discussione) con la vecchia politica e soprattutto il più possibile condivisa dalla base democratica. Sui nomi si è discusso molto, il problema è stato farlo in relazione agli equilibri politici "delle prossime settimane e non dei prossimi anni", come ammoniva Matteo Renzi. Privilegiare la conservazione dello status quo, preparare la strada alle larghe intese, chiudere definitivamente con il Movimento 5 Stelle, evitare lo spettro delle elezioni anticipate: obiettivi discutibili, modalità completamente sbagliate, come dimostrato dalla rivolta della base e di quasi 200 grandi elettori.
A quel punto, Bersani non ha potuto che prendere atto della bocciatura, non solo della figura di Marini, ma dell'ipotesi di una convergenza con il Popolo della Libertà. E si è rassegnato all'indicazione del nome "più inviso al Cavaliere". Facendo sorgere spontaneamente una domanda di senso: se la linea è questa, perché non Rodotà? Si tratterebbe ugualmente di una candidatura di rottura con Pdl e Scelta Civica, ma avrebbe almeno la certezza di elezione e i democratici non sarebbero costretti ad una sanguinosa conta, peraltro dagli esiti incerti. A questa obiezione i democratici, ieri abbiamo sentito Orlando e Geloni ad esempio, hanno sempre parlato di "modalità inaccettabili" nell'indicazione da parte del M5S, spostando in qualche modo il dibattito sui rapporti (pessimi) che intercorrono ormai fra l'entourage bersaniano e i grillini. Linea debole, tutto sommato, che però rimanda alla necessità di preservare un minimo di "potestà decisionale".
Prodi, dunque. Un modo, per dirla con le parole di Vendola, "per fermare la giostra" e ricompattare almeno il proprio fornte. Del resto, "il nome di Romano Prodi è sempre stato in campo, anzi stupisce che non sia stato il Pd a farlo", come ci confidava Civati, rilanciando l'idea che, se gestito in altro modo, si sarebbe trattato di un percorso efficace e che avrebbe in qualche modo messo con le spalle al muro il Movimento 5 Stelle. Il ragionamento è tutto sommato semplice. Di fronte alla reale volontà del Pd di evitare "l'abbraccio mortale con il giaguaro", per quanto ancora il Movimento 5 Stelle avrebbe insistito senza tentennamenti sul nome di Rodotà? Del resto, come in qualche modo ha confermato la stessa Roberta Lombardi ai nostri microfoni, pur tenendo fermo l'impegno con i militanti a sostenere Rodotà, il nome di Prodi è stato fatto dagli stessi grillini ("già averne uno dei dici sarebbe una gran cosa"). E, sia detto per inciso, senza l'intervento ad urne aperte di Grillo e Casaleggio, le preferenze per il professore avrebbero potuto essere di gran lunga maggiori. In sostanza, con un po' di criterio in più, gli stessi 5 Stelle si sarebbero potuti convincere della necessità di dirottare i loro consensi sull'ex Presidente del Consiglio, riconoscendo che la mediazione non è necessariamente un errore e che il compromesso, quando non è al ribasso o teso a raggiungere scopi "terzi", è parte integrante della pratica politica.
Ma la gestione schizofrenica dei democratici ha sostanzialmente pregiudicato questa prospettiva. E ci toccherà assistere ancora all'ennesimo teatrino, con i franchi tiratori ad impallinare Prodi ed il Movimento che passerà da Rodotà a Zagrebelsky, poi ad Imposimato ed Emma Bonino. Mentre il Pd, salvo clamorosi colpi di scena (leggasi intervento di Montezemolo o di qualche grillino in "incognito") avrà bruciato un altro candidato e fatto un altro passo sulla via della dissoluzione. Ah, nel frattempo, ci sarebbe un Paese in attesa di risposte (ma questo non ditelo in giro, si rischia di passare per populisti).