Febbraio del 2000, dodici anni fa. Un anno prima era stato ammazzato dalle Brigate Rosse Massimo D'Antona, giurista e consulente del ministero del Lavoro, all'epoca retto dal napoletano Antonio Bassolino. In un convegno all'Università Federico II di Napoli, organizzato da due associazioni culturali studentesche, "Magna Carta" e "Hic et nunc", dall'inequivocabile titolo "Terrorismo ieri, oggi, domani?" si confrontano studenti, giornalisti, politici, giuristi e docenti. Tra i relatori vi sono Francesco Barbagallo, ordinario di Storia Contemporanea all'ateneo federiciano; Ferdinando Imposimato già magistrato, politico e avvocato; l'allora procuratore aggiunto della Procura della Repubblica a Roma Italo Ormanni e così via. Il discorso verte sulla genesi storica del terrorismo, sugli scenari futuri, inquietanti visto l'agguato a D'Antona e la successiva rivendicazione brigatista. Quel giorno gli interventi sono registrati da Radio Radicale in audio, sono fruibili anche sullo sterminato archivio web radicale.
Tra gli interventi c'è quello di un giovane napoletano: barba incolta, qualche capello in più rispetto ad oggi, uno sciarpone – ricordano oggi coloro che c'erano – avvolto al collo. Quel giovane si chiama Roberto Saviano, oggi è il più venduto scrittore italiano ma all'epoca ancora non lo sa. Il giovane, classe 1979, ha 21 anni. Chiede di intervenire e gli viene concesso, il suo contributo è breve, nemmeno due minuti. L'abbiamo estrapolato e inserito in un video.
È un Roberto Saviano molto diverso da quello che siamo stati abituati a conoscere: l'intervento è del 2000 e il suo libro più famoso, "Gomorra" sarebbe stato pubblicato soltanto sei anni dopo. Le sue parole sono poco mediate ed egli non è avvezzo come oggi a parlare in pubblico, la voce tremolante tradisce l'emozione. Saviano tenta di spiegare la sua visione dei terroristi italiani: "Erano parte sensibile di un grande movimento operaio che si sentiva tradito dal Pci… che aveva tradito con la sua scelta socialdemocratica le aspettative rivoluzionarie […]". E così – illustra colui che anni dopo avrebbe preso il posto di Giorgio Bocca all'Espresso – i terroristi "prendono le armi per cercare in qualche modo portare avanti questo progetto che era stato tradito dal Pci".
[quote|left]|Un magistrato, un poliziotto, un politico non fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quello che fa un rivoluzionario sparando.[/quote]Saviano, come si può ascoltare dall'audio, si riferisce ad un intervento precedente circa le ‘rivoluzioni pacifiche'. E va giù duro: "Non è possibile. La rivoluzione è – dice – la modificazione dell'attuale stato di cose presenti diceva Marx, quindi si fa col fucile". In un uditorio piuttosto moderato, composto da docenti, giuristi e studenti, l'affermazione appare piuttosto intensa. E il 21enne continua: "Io voglio dire… la polizia sparava per le strade, la polizia ha ucciso Francesco Lorusso, la polizia ha ucciso Giorgiana Masi la polizia era armata, chi faceva resistenza doveva armarsi". Sempre più intenso e duro, continua, dicendo di non credere ad "analisi semplicistiche" su servizio segreto e magistratura deviata. "Il problema – continua – rimane il capitalismo".
Nei pochi secondi finali a sua disposizione, il futuro scrittore lancia parole pesanti come pietre. È – come già detto – un Roberto Saviano molto diverso rispetto a quello che siamo abituati a sentire. Ma le sue parole, oggi, non possono non sorprendere:
In questi termini bisogna trattare le armi e la decisione tragica di chi prende le armi perché in fondo voglio dire… non è che un magistrato un poliziotto un politico fanno qualcosa di più lecito se parliamo di etica di quella che fa un rivoluzionario sparando, a meno che non guardiamo il contingente… L'industriale non ammazza con la rivoltella i suoi salariati però…come dire… li soffoca con altre modalità. Certo non ho vissuto quegli anni ma non sto certo dalla parte della magistratura non sto certo dalla parte di chi in qualche modo rivendica le radici democratiche di chi ha sconfitto il terrorismo.
Concetti distanti anni luce da quelli espressi qualche anno dopo, recensendo il libro di Benedetta Tobagi, figlia di Walter, il giornalista ucciso da estremisti di sinistra. Allora Saviano scrisse: "Abbiamo capito benissimo cosa hanno fatto questi terroristi che volevano mutare il mondo e l'hanno peggiorato, distratto l'attenzione da quello che combinava la criminalità organizzata e la politica corrotta, ucciso la parte migliore del Paese. I giudici che vengono uccisi non sono quelli reazionari, pesanti con i deboli e deboli con i potenti. Sono i giudici riformisti, democratici, capaci di considerare la giustizia che i terroristi definiscono borghese come uno strumento di miglioramento sociale e di vedere la legge come difesa, sempre di chi non ha strumenti altri di difesa che il diritto".
Ma forse quando parla a quel convegno il 21enne Roberto Saviano non ha ancora maturato nulla di tutto ciò. Tant'è che chiude il suo intervento così: "Loro (i terroristi ndr.) hanno sbagliato semplicemente forma: la rivoluzione non si fa, si dirige. Loro hanno cercato come piccola cellula di individui isolati di generare un processo rivoluzionario non ancora maturo e quindi anche castrandolo e vorrei soltanto fosse focalizzato il problema sul capitalismo e sulle sue crisi che generano e genereranno rivoluzioni e di nuovo colpi di fucile nel futuro immediato".