Roberto Saviano è sotto processo per un reato di opinione, questo è un fatto. Si è svolta due giorni fa la prima udienza, conclusa con il processo rimandato a dicembre.
Un’opinione detta con forza, quella di Roberto Saviano, scandita in TV dopo aver visto un filmato – girato dalla ONG Open Arms – con le immagini di un naufragio. In questo filmato si vede una donna, una ragazza giovanissima, una mamma, gridare: “I lost my baby”, cioè “ho perso il mio bambino”. E poi ancora urlare: “Where is my baby?”
La donna si chiama Haijay, e il figlio si chiamava Youssef. Il verbo per il figlio l'ho messo al passato perché fu ritrovato morto, affogato con i polmoni pieni d’acqua. Youssef aveva 6 mesi, e come ha ricordato Roberto Saviano “purtroppo non esistono giubbotti di salvataggio per neonati, e alla madre, complici l’acqua, il freddo, il buio, a un certo punto il figlio era fuggito dalle mani”.
Di fronte a tutto questo, Roberto Saviano scandì le parole “Bastardi, come avete potuto?” rivolgendosi direttamente a Giorgia Meloni e Matteo Salvini.
Roberto, cosa volevi dire con quelle parole?
Mi sono rivolto a loro per dire “come avete potuto raccontare questo come ‘pacchia’ o ‘crociere’, ‘carico residuale’, oppure ‘viaggi dove hai come omaggio la cittadinanza italiana’.
E’ un processo alle tue parole?
Sì, la parola è ciò per cui sono qui. L’accusa è quella di aver ecceduto il contenimento, il perimetro lecito, la linea sottilissima che demarca l’invettiva possibile da quella che viene chiamata “diffamazione”.
Sei “pentito”?
Siamo un unico caso nel mondo Occidentale, in cui Governi democratici decidono di processare intellettuali, non succede mai e soprattutto per reati di opinione. Io non ho attribuito comportamenti, io ho dato una valutazione. Però nessun problema, la mia scrittura e la mia attività è sempre quella di portare il corpo accanto alle parole.
Anzi: sento di aver speso perfino parole prudenti, di aver gridato indignazione perfino con parsimonia.
Le tue parole, se ho capito bene, non sono state una reazione emotiva alla visione del filmato.
No, ero cosciente di quel che dicevo. Quelle parole non sono state uno scatto di nervi.
Sai che se invece tu dicessi “è stata una reazione emotiva”, oppure “quelle parole mi sono scappate”, sarebbe molto più semplice uscire dal processo?
Sì, è vero. Però sarei falso.
Io invece mi chiedo: qualcuno è stato rinviato a giudizio perché ha chiamato “pacchia” la morte di centinaia di persone? Oppure “crociera” la morte di bambini?
Cosa pensi in questo momento?
Ho un’immagine in testa, in questo momento. L’ultima parola che si sente pronunciare quando c’è un naufragio, potete chiederlo a qualsiasi operatore. Sapete qual è? E’ “mamma”.
E’ l’ultima parola che si sente in mare, di notte. L’ultima, sempre, perché è la parola che più strillano, e non solo i bambini, per chiedere “aiuto” mentre l’acqua ti sta portando giù. Ma come si fa di fronte a questo a dire “pacchia”? Come è possibile?
Roberto, un’ultima domanda, anche come incentivo a non girarsi dall’altra parte: vale la pena continuare a prendere posizione?
Alla fine quello che conta, per me oggi, alla fine di questi processi che mi faranno, è lasciare una traccia per me stesso: io non sono stato complice. Io non sono stato complice di questo schifo che hanno fatto, non sono stato parte della propaganda che ha dato addosso a disperati. Non posso non prendere parte. In questo momento chi non prende parte è complice.
Grazie Roberto.
Grazie a te Saverio.