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Covid 19

Ritardi, errori ed equivoci: ecco perché l’indagine del governo sul Covid rischia il flop

Nelle settimane del lockdown, l’indagine sierologica nazionale era indicata come una delle chiavi per far ripartire il Paese. Ma mentre siamo ormai in piena fase due, lo studio per capire quanti italiani hanno sviluppato gli anticorpi contro il Covid è ancora al palo. Ritardi ed errori hanno favorito la scarsa adesione al progetto. Ora si prova a correre ai ripari, ma potrebbe essere tardi.
A cura di Marco Billeci
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“È occupato? Mi dice quando la posso richiamare?”. “Non sa di cosa parlo? Se mi dà un attimo glielo spiego”. Basta passare qualche minuto ad ascoltare le telefonate dei volontari dal centro operativo della Croce Rossa a Roma, per capire quanta distanza passa tra pianificare a tavolino di un’indagine per verificare l’incidenza del Covid sulla popolazione italiana e le difficoltà nel realizzarla davvero.

Nei giorni del lockdown, l’indagine sierologica nazionale è stata indicata dalle autorità come una delle chiavi per decidere come e quando far ripartire l’Italia. In realtà, mentre la fase due ormai è già in corso da settimane, l’iniziativa è ancora in alto mare, derubricata ormai a strumento statistico. E con sole 40mila disponibilità attualmente registrate a fronte di un campione previsto di 150mila test, il rischio flop si fa sempre più concreto.

Come funziona l'indagine

Individuare quanta parte della popolazione ha sviluppato gli anticorpi contro il Coronavirus, intercettando anche chi si è ammalato avendo pochi o nessun sintomo. Con quest’obiettivo, nel progettare l’uscita dalla quarantena, ad aprile il governo e le autorità sanitarie presentavano il progetto di un’indagine sierologica su larga scala. Si trattava di restituire un quadro più veritiero della penetrazione del Covid nel Paese rispetto a quello raccolto nelle settimane più acute della crisi. Capire quanti italiani e in che aree della Penisola avessero contratto il virus avrebbe contribuito anche a pianificare modi e tempi delle riaperture.

Le cose sono andate diversamente. Da un lato, i dubbi sul fatto che la presenza di anticorpi nel sangue garantiscano un’effettiva immunità hanno ridimensionato la rilevanza dei test. Dall’altro, mentre regioni e comuni procedevano in ordine sparso con le proprie rilevazioni, l’indagine su scala nazionale ha stentato a partire. Una prima bozza del testo che doveva regolare lo studio compare il 29 aprile, come allegato al decreto sulla giustizia. Nella versione definitiva del dl però la norma scompare, pare per problemi ancora irrisolti legati alla privacy dei dati sanitari degli utenti. Sarà approvata dal governo il 10 maggio, con la testa del Paese già rivolta alla ripartenza dopo i mesi di cattività. Le prime telefonate ai cittadini selezionati partono solo il 25 maggio.

Il percorso fissato in teoria è piuttosto lineare. L’Istat individua un campione di 190mila persone rappresentative della popolazione italiana, tra cui pescare 150mila volontari per sottoporsi all’indagine. Alla Croce Rossa è affidato il compito di contattare i prescelti e fissare gli appuntamenti. Una volta effettuati i test dalla Cri o nelle unità di prelievo delle regioni, i campioni sono analizzati dai laboratori regionali, i quali poi inviano i risultati ai diretti interessati e all’Istat per elaborare i dati.

Fin da subito, però si capisce che qualcosa non funziona. Dopo il primo giorno di chiamate, il 26 maggio la Croce Rossa comunica che solo il 25 percento dei contattati ha accettato di aderire al test. Gli altri non hanno risposto, hanno rifiutato o hanno preso tempo. Il presidente della Cri Francesco Rocca si appella agli italiani: “Non siamo stalker, non è una truffa telefonica, ma è un servizio che potete rendere al vostro Paese”.

A distanza di settimane, le cose non sembrano essere troppo migliorate. Secondo gli ultimi dati forniti a Fanpage da via Ramazzini, su 130mila persone contattate, gli appuntamenti fissati per i prelievi sono circa 40mila, mentre un venti percento del campione ha detto no. Gli altri sono considerati ancora in sospeso. Il termine per il completamento delle operazioni è scalato almeno alla fine di giugno.

Cosa non ha funzionato

Quali sono le ragioni di queste difficoltà? “Alcuni pensano che l’emergenza sia finita e che quindi lo studio non sia importante, ma questa è una percezione sbagliata”, spiega Michele Bonizzi, responsabile salute della Croce Rossa. Un effetto certo dovuto anche al fatto che l’indagine sia partita così in ritardo rispetto ai tempi delle riaperture. C’è poi il peso delle fake news e delle teorie complottiste diffuse nelle ultime settimane, che hanno fatto presa su una parte della popolazione.

Ci sono però anche elementi più concreti. Il principale è l’incertezza sui tempi della procedura, qualora chi si sottopone al test sierologico risulti con gli anticorpi. In questo caso, il soggetto sarebbe teoricamente costretto a rimanere in isolamento fino a quando non effettua il tampone per verificare l’attuale possibile positività al virus. Una prospettiva temuta da molti che si chiedono quanto tempo sarebbero costretti a rimanere di nuovo bloccati in casa, con le attività lavorative e sociali ormai ripartite. Le cronache, infatti, raccontano che in alcune regioni prima di fare il tampone dopo la segnalazione alle Asl locali possono passare settimane.

Dalla Croce Rossa si sottolinea l’impegno del ministero della Salute per assicurare tamponi tempestivi a chi aderisce all’indagine. Di mezzo però c’è anche la complessa macchina delle competenze tra Stato e regioni. Il problema dunque rimane, tanto che ai microfoni di Fanpage, Bonizzi rivela come a livello istituzionale “si sta riflettendo se si possa bypassare l’obbligatorietà dell’isolamento volontario in caso di positività al test sierologico, proprio per favorire la partecipazione allo studio”.

D’altra parte, scorrendo i commenti sulla pagina Facebook della Croce Rossa, si scopre come molti italiani sarebbero disponibili a prendere parte all’indagine, ma non possono farlo perché non inclusi nel campione. C’è chi allora contesta il metodo scelto per selezionare i partecipanti e suggerisce una strada alternativa che si sarebbe potuta seguire. L’Istat avrebbe dovuto stabilire i criteri generali per aderire al progetto, le persone si sarebbero potute candidare liberamente come volontarie e se corrispondenti alle disposizioni dell’Istituto di Statistica sarebbero state ammesse ai test.

Il mancato coinvolgimento dei medici

In molti altri casi, a ostacolare il successo dello studio sembra essere la diffidenza. Le persone non rispondono a un numero che non conoscono, lo 065510 da cui arrivano le telefonate della Croce Rossa. E se rispondono, non si fidano ad aderire a un’iniziativa di cui sanno poco o niente. Sotto accusa è finita la comunicazione ai cittadini da parte del ministero della Salute, giudicata insufficiente e tardiva anche da parte da chi è coinvolto nel progetto. Per fare un esempio, solo due settimane dopo l’inizio dell’indagine, si è deciso di inviare un messaggio sui cellulari dei selezionati prima della chiamata della Croce Rossa, così da avvertirli che erano stati scelti, che sarebbero stati contattati e per quale motivo.

Un aiuto a superare lo scetticismo delle persone lo avrebbero potuto dare i medici di famiglia. Secondo il protocollo ufficiale che regola lo svolgimento dell’indagine, le regioni prima della partenza della campagna avrebbero dovuto comunicare i nominativi di chi rientrava nel campione ai rispettivi medici di base o ai pediatri. Questi ultimi di conseguenza avrebbero potuto avvisare in anticipo i loro assistiti di quello che sarebbe successo e spiegare il valore della partecipazione allo studio. Non è andata così. Secondo il Sindacato dei Medici Italiani solo il 10 percento dei medici di medicina generale ha ricevuto indicazioni in questo senso. La Federazione Italiana Medici di Famiglia parla di informazioni disomogenee tra le diverse regioni, senza nessun protocollo comune.

I costi del progetto

Rimane senza risposta la domanda su cosa ne sarà dell’iniziativa qualora non si riuscisse a raggiungere il campione previsto di 150mila provette. Di certo per ora ci sono i costi necessari per imbastire il progetto, dettagliati nella relazione tecnica che accompagna il decreto istitutivo dell’indagine sierologica. Si tratta di circa un milione e mezzo di euro per l’acquisto del materiale per fare i test; un massimo di 385mila euro destinati all’assunzione per sei mesi di dieci unità presso l’Istat per analizzare i dati. E ancora 220mila euro circa per creare la piattaforma informatica necessaria a gestire l’operazione; 700mila euro per i materiali di stoccaggio e conservazione delle provette. Infine, 1,7 milioni di euro riconosciuti alla Croce Rossa per le sue attività in quest’ambito.

Con un emendamento al decreto sull’indagine sierologica da poco approvato in Senato, la leghista Sonia Fregolent ha provato a correggere il meccanismo. La sua idea era sottrarre alla Cri la gestione delle operazioni e affidarla e alle Asl locali. “Non è un emendamento contro qualcuno – spiega Fregolent interpellata da Fanpage -, ma in questi mesi ci siamo tutti resi conto dell’importanza degli operatori che ogni giorno lavorano a contatto con i territori nei dipartimenti di prevenzione e quindi hanno un rapporto privilegiato con i cittadini. Se arriva la chiamata dalla Asl locale, uno magari è più propenso a rispondere e richiamare”.

La senatrice è consapevole delle difficoltà di cambiare rotta a un percorso ormai avviato, ma insiste sul buon senso della sua proposta: “In tantissime Asl già in passato sono partiti degli screening per conto di istituzioni pubbliche come l’Iss. Si potevano utilizzare lavoratori già formati per questo tipo d’indagine. Invece si è attribuito a Croce Rossa un ruolo che non è il suo, dovendo anche preparare da zero il personale”.

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