Dai primi tentativi di intervento di Giuliano Amato, passando per la Riforma Dini, che di fatto costituisce uno spartiacque fondamentale, a quella Maroni e al sistema attualmente vigente che contiene modifiche sostanziali apportate dal Governo Prodi: il tema della sostenibilità del sistema pensionistico italiano è uno dei principali "nodi" con cui si sono confrontati i governi della Seconda Repubblica. Un cammino costellato di passi falsi, mediazioni e tentativi abortiti, progetti soltanto abbozzati ed immediatamente rientrati. Una questione spinosa proprio perché chiama in causa il complesso dei rapporti fra Stato, sistema produttivo e mondo del lavoro, con provvedimenti che hanno evidentemente un fortissimo impatto sociale ed economico e che dovrebbero in effetti rispondere ad una "visione complessiva del modello di società e non a contingenze e mutamenti temporanei delle condizioni finanziarie".
Proprio in tal senso muoveva la fondamentale e per molti versi controversa Riforma Dini, la quale, in virtù della necessità di riequilibrare il rapporto fra Pil e debito pubblico, introduceva il principio base che ancora adesso regola il nostro sistema. Si tratta in sostanza il passaggio fra un sistema di tipo retributivo (basato sui salari precedentemente percepiti e dunque su un equilibrato rapporto fra pensione e ultima retribuzione) ad uno di tipo contributivo, con il calcolo del trattamento pensionistico in relazione ai contributi versati. Inoltre, non di minore importanza si riveleranno le modifiche alle "soglie minime dell'età pensionabile", portate alla forbice 57 – 65 anni, eccezion fatta per i lavoratori con 40 anni di contributi.
Decisiva però per la definizione dell'attuale normativa, la Riforma Maroni, con la quale nel 2004 veniva introdotto il meccanismo dello scalone. In pratica, all'innalzamento della soglia minima a 60 anni, con un meccanismo a salire (61 nel 2010 e 62 nel 2014, sempre tenendo fermo il limite minimo dei 35 anni di contribuzione), si aggiungono la possibilità di destinare il Tfr a fondi pensione integrativi e gli incentivi per i lavoratori che pur avendo maturato i requisiti necessari decidono di rimandare il pensionamento e continuare a lavorare. Il senso complessivo di tale intervento è reso proprio dalle parole dell'allora Ministro del Welfare: "Dal 2008 la regola generale sarà che in pensione si potrà andare solo con 40 anni di contributi oppure con 65 anni di età, 60 per le donne".
L'attuale sistema però è frutto, come spesso accade, di un sofferto compromesso. Nel 2007 infatti, il Governo guidato da Romano Prodi apporta modifiche sostanziali allo scalone, accogliendo alcune perplessità sollevate all'interno dello schieramento di centrosinistra, ma non "sconfessando" l'impianto base della riforma maroniana. In pratica, escludendo del tutto dalle modifiche i lavori cosiddetti usuranti, si organizza un sistema misto con l'introduzione di nuovi coefficienti ed un "mix di scalini e quote" a partire dal 2010. Il limite minimo viene portato dal 2008 a 58 anni di età e 35 di contributi, mentre dall'anno successivo si introduce il sistema delle quote (con la somma di anni di età e di contributi), a partire da quota 95 e per arrivare a quota 97 nel 2013 (mentre non viene toccata la posizione di chi ha 40 anni di contributi).