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Cambiamenti climatici

Riconversione ecologica: il governo sta svendendo l’unica fabbrica controllata dallo Stato che fa autobus

L’Industria Italiana Autobus potrebbe essere rilanciata producendo bus elettrici e mezzi per la mobilità collettiva, ma il ministero dell’Economia preferisce svendere le sue quote e l’altro socio pubblico, Leonardo, investire in armi. Sindacati e movimenti ecologisti propongono un piano industriale alternativo.
A cura di Lorenzo Tecleme
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Via San Donato, periferia di Bologna. Di fronte ai cancelli dell’ex Breda-Menarinibus un centinaio di persone siede in cerchio, chi per terra e chi su sedie di plastica. In gran parte sono operai della fabbrica alle loro spalle, riconoscibili grazie alle polo grigie d’ordinanza, ma in mezzo a loro anche molti studenti universitari. È solo l’ultima delle tante assemblee sindacali svolte nello stesso luogo negli ultimi anni, e in tutti i presenti è risuonata la stessa parola chiave: paradosso.

La fabbrica in questione produce autobus. Dal 2014 si è fusa con Irisbus, che ha sede in Campania, ed è diventata Industria Italiana Autobus. È l’ultima azienda italiana a costruire mezzi per la mobilità collettiva. La controlla lo Stato, ed è attiva in un settore – quello del trasporto pubblico – che grazie a fondi europei e transizione ecologica naviga a vele spiegate. Ma nonostante questo l’azienda accumula debiti su debiti, e il governo ha deciso di disfarsene. È questo il paradosso a cui si riferiscono i lavoratori in assemblea.

«Industria Italiana Autobus è al 40% di Invitalia, un’agenzia del governo, e al 30% di Leonardo, che a sua volta è a maggioranza pubblica. Il terzo socio, un attore turco, ormai rimane solo di facciata. Insomma, è lo Stato a decidere il nostro futuro». A parlare a Fanpage è Mario Garagnani, sindacalista della Fiom Cgil che da anni segue la vertenza. «IIA è piena di commesse, e sta dentro un settore in crescita grazie alle giuste normative europee sul passaggio all’elettrico, la promozione della mobilità sostenibile e la riduzione delle emissioni. Tante flotte di bus delle città italiane ed europee sono in rinnovamento, qui si fa già la transizione. Ma questo non ha impedito al governo di fare flop».

I conti di Industria Italiana Autobus, in effetti, non sono rosei. «Primo, ci si è affidati a manager che hanno accumulato qualcosa come 200 milioni di debito. E dire che sia Invitalia sia Leonardo avrebbero delle dirigenze capaci. Secondo, invece di fare politica industriale, lo Stato ha deciso di vendere. E non al migliore, ma a chi chiede di meno». Il nuovo compratore, spiegano dal sindacato, avrà un incentivo economico dai soci che escono. Il governo, è l’accusa, privilegia chi accetta di acquisire il controllo facendo spendere il meno possibile a Invitalia e Leonardo. «Le quote stanno venendo vendute al gruppo Seri Industrial, ma noi temiamo non abbiano l’esperienza per rilanciare l’azienda – continua Garagnani – e quello che è peggio, il Ministro Urso non ha nemmeno aspettato il parere delle lavoratrici e dei lavoratori prima di scegliere».

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Perché il governo Meloni ha deciso di vendere? Da un lato l’uscita di Invitalia si spiega con la decisione dell’esecutivo a guida Fratelli d’Italia di privatizzare pezzettini di patrimonio pubblico. Da mesi si parla di piccole quote di Eni, di Enel, di Poste Italiane e delle Ferrovie dello Stato in vendita. L’uscita di Leonaro ha probabilmente a che fare con la strategia del gruppo, che da tempo privilegia la produzione militare a scapito di quella civile. E le armi, in tempi di guerra in Ucraina e di scontri geopolitici, possono essere un settore più remunerativo dei bus.

«Industria Italiana Autobus è un asset strategico per la transizione ecologica» conclude il sindacalista. Un parere condiviso dagli ecologisti, che sopratutto attorno alla fabbrica di Bologna hanno iniziato a mobilitarsi assieme agli operai. Per questo all’assemblea di fronte ai cancelli c’erano anche gli studenti. L’incontro è stato promosso da Fridays For Future, il movimento per il clima fondato da Greta Thunberg, e il sindacato ha partecipato con due ore di sciopero. Non solo: Industria Italiana Autobus è anche al centro della ricerca della campagna Climate Jobs. Si tratta di un progetto internazionale che mette assieme ricercatori, attivisti e sindacati. L’idea è quella di fornire strumenti tecnici a chi si batte per transizione ecologica e difesa del lavoro. Obiettivo: creare milioni di climate jobs, lavori climatici positivi per il Pianeta. «In Italia è promossa da Fridays For Future e dal collettivo ex-GKN, operai di una fabbrica fiorentina che da due anni occupano lo stabilimento per evitare il licenziamento», ci spiega Gianluca Sala, ricercatore dell’Università di Bologna e membro della campagna. Assieme a suoi colleghi dell’Università di Roma, del Sant’Anna di Pisa e di altri atenei ha lavorato ad un piano industriale che ruoti attorno alla transizione nella mobilità. E la chiave di questo piano è proprio Industria Italiana Autobus.

«Ci siamo chiesti quanti posti di lavoro si possano creare investendo sul trasporto pubblico locale sia dal lato della domanda sia dal lato dell’offerta – spiega Sala – In Italia ogni anno si immatricolano quasi 3000 bus, con qualche oscillazione di anno in anno, ma se ne producono meno di 300. Se portassimo la produzione di IIA a 1000 bus l’anno e dessimo alle aziende comunali – come l’Atac di Roma, l’Atm di Milano, la Tper di Bologna – i giusti fondi, potremmo creare 15.000 nuovi posti di lavoro!».

Il piano immaginato dai ricercatori, però, non sembra per ora interessare al governo. Industria Italiana Autobus, che poteva essere l’epicentro di un polo pubblico per la mobilità sostenibile, è stata privatizzata, e la maggioranza delle quote è in mano a Seri Industrial. Sulla stampa è circolata anche l’ipotesi che questa proprietà sia transitoria, e che un gruppo cinese sia interessato all’acquisto. «È possibile sia una fase di passaggio» dice ancora Garagnani della Fiom Cgil. «Se davvero un’azienda cinese stesse cercando una fabbrica per produrre in Italia, magari per aggirare i dazi che l’Europa sta iniziando a varare, potrebbe anche non essere troppo male per i lavoratori, perché almeno si rilancerebbe l’assemblaggio in loco. Ma rimane la paura che il know-how, lo sviluppo e l’innovazione, vengano portati in Cina. E che alla fine, come sempre, l’Italia perda un pezzo di industria. L’ennesimo».

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