È la primavera del 2021, l’Italia si prepara a una nuova tornata di Elezioni Amministrative: si vota a Roma e a Torino, città amministrate dal Movimento 5 Stelle da cinque anni. Virginia Raggi e Chiara Appendino, dopo aver ben governato per 5 anni, hanno tenuto una conferenza stampa in cui hanno annunciato la loro volontà di “valutare” una eventuale candidatura a capo di una lista civica. Per Non Statuto, infatti, nessuna delle due può ricandidarsi. Una possibilità fortemente criticata da Luigi Di Maio, candidato alla Presidenza del Consiglio alle politiche del 2017, vinte al ballottaggio ma senza la maggioranza al Senato (dopo il no al referendum sulla riforma della Costituzione), e a 36 anni ormai prossimo all’abbandono della politica (nel 2022 non potrà ricandidarsi).
Distopia, fantapolitica, certo. Ma la questione è seria e rischia di dividere profondamente il Movimento 5 Stelle: la regola del doppio mandato è un problema, e potrebbe mandare all'aria anni di lavoro. Il punto è che cambiarla significherebbe riconsiderare profondamente lo spirito del Movimento, reimpostarne le coordinate "ideologiche", cancellare anni di polemiche e abbandonare l'integralismo, che fin qui ha pagato non poco in termini di consenso. Qualche mese fa, subito dopo la kermesse Italia 5 Stelle, il "limite del doppio mandato" fu oggetto di una discussione piuttosto aspra all'interno del gruppo dirigente grillino. L'idea, avanzata in particolare da due senatori tra i più considerati all'interno del gruppo, era quella di "lasciar decidere agli iscritti" sul punto specifico: proposta bocciata, in primo luogo dal direttorio. Che aveva aperto parzialmente solo su alcune "interpretazioni" della norma: riferirsi al "mandato completo" come punto di riferimento e ipotizzare una deroga per le "precedenti esperienze".
L'ipotesi non aveva trovato posto nella "riorganizzazione" impostata da Gianroberto Casaleggio e proseguita dal figlio Davide. Già, perché in pochi se ne sono accorti, ma il Movimento ha avviato un percorso di trasformazione piuttosto profondo negli ultimi mesi: è stata rafforzata la posizione del direttorio e dei gruppi di comunicazione a Camera e Senato, è stato scelto il metodo della fondazione e del crowdfunding per la stabilizzazione finanziaria, è stato completato Rousseau, è passata la linea intransigente per quel che concerne il "codice di comportamento" degli eletti, verrà riaperto il processo per istituire il recall a tutti i livelli.
Il modello "imposto" dai piani alti M5S prescinde da una strutturazione su base territoriale (il depotenziamento dei meetup si inserisce in tale strategia) e allo stesso tempo è lontano dalla forma "liquida". Tutt'altro, si pensa a un partito strutturato e con una ferrea gerarchia interna, che abbia solo vaghe coordinate ideologiche e che di volta in volta si affidi alla materia pensante "collettiva", costituita da Rousseau, più che alle individualità / agli eletti. L'idea, solo in parte coincidente con lo "spirito delle origini", è quella di un organismo che funzioni "a prescindere" dai suoi elementi, che sia alimentato dal contributo degli iscritti certificati, in linea con (alcuni) principi della democrazia diretta.
Strada stretta, si dirà, e piena di insidie (e anche contraddizioni). Ma è la risposta che il M5S intende dare da sempre alla crisi della politica, eliminando una serie di intermediazioni e dando la possibilità (o l'illusione) della partecipazione diretta ai cittadini. Soprattutto, è la risposta che direttorio / staff immaginano sufficiente a frenare ambizioni e personalismi, giudicati deleteri al progetto grillino nel suo complesso.
Finora, l’assenza di trasparenza negli stessi meccanismi inclusivi e l’estrema limitatezza della partecipazione, avevano reso monco ogni tipo di esperimento e gettato più di un'ombra sulla democraticità del Movimento e sul reale peso dei suoi principi cardine. L’emergere di figure cardine aveva poi restituito l’idea di un Movimento inesorabilmente destinato a diventare un “partito come gli altri”. In tal senso la “necessità” di indicare un leader sembrava la pietra tombale sullo spirito delle origini. Rousseau e la chiusura sulla professionalizzazione della figura del portavoce (e sì, c’entra anche la questione delle indennità) sono la risposta dei vertici e il modo per ribadire una diversità rispetto alla politica tradizionale.
Tutto bene, dunque? Non proprio, perché le contraddizioni restano molte e perché la politica è sangue, sudore e qualcos’altro. E non sono pochi i parlamentari a chiedere che venga loro riconosciuto il duro lavoro di studio e preparazione fatto in questi anni. "A volte bisogna prendere decisioni rapide, saper leggere le situazioni, fare anche qualche compromesso per portare a casa il risultato", ci diceva qualche tempo fa un deputato, aggiungendo: "Per carità, la Rete, gli iscritti…Ma poi vorrei anche capire cosa votano e in quanto tempo". E sui soldi? "Non è solo una questione di soldi, ma è anche una questione di soldi. Dopo 5, forse 10 anni in Parlamento ci si chiede di tornare fare il nostro lavoro precedente, ma sarà quasi impossibile…".