Si è spesso dibattuto intorno al rapporto fra i numeri della crisi economica e ciò che invece viene percepito dall'opinione pubblica. Il solito "qualcuno" (quello del kapò e di Mubarak, per capirci) non più di un anno fa fu seppellito da una valanga di insulti per aver definito la crisi "un fatto psicologico". Ora che i ristoranti sono vuoti però, la questione sembra in qualche modo essere ritornata prepotentemente al centro delle "analisi di clima" e delle indagini onnicomprensive di analisti ed opinionisti. Il punto non è tanto la valutazione della profonda crisi economica e sociale che senza alcun dubbio investe il nostro Paese, quanto piuttosto le modalità e l'approccio con cui la situazione viene percepita, interpretata e raccontata ai vari livelli.
Ciò che in qualche modo preoccupa è in effetti il modo in cui l'opinione pubblica sta "vivendo" un momento per tanti versi drammatico e decisamente complesso sia dal punto di vista economico – finanziario che da quello politico istituzionale. Il clima che si respira riflette tensione, sfiducia, insofferenza e rabbia. I concetti attraverso cui la realtà viene "raccontata e declinata" sono pregni di populismo e demagogia, generalizzazioni e semplificazioni sono alla base della "semantica in tempo di crisi", qualunquismo e superficialità sono i pilastri portanti dei canali di trasmissione e condivisione di informazioni parziali e frammentarie. E paradossalmente, tutto ciò appare finanche legittimo per certi versi. Soprattutto perchè appare del tutto comprensibile la reazione dell'opinione pubblica di fronte alla devastazione di una nazione, allo svilimento dei concetti cardine della democrazia e del vivere sociale (giustizia, equità, onestà, solidarietà…), allo scivolamento del linguaggio a livelli infimi, al trionfo di incompetenza, corruzione, lassismo e malaffare a tutti i livelli politico – istituzionale. Tuttavia lasciare il timone e cullarsi nell'ebbrezza della deriva è un lusso che non dobbiamo concederci. Anche perchè la posta in gioco è altissima. E gli effetti del "clima del '92" sono già sotto gli occhi di tutti.
IL BELPAESE DELL'INDIGNAZIONE A TEMPO – Accade ad esempio che una sentenza di grande civiltà e razionalità che stabilisce la non obbligatorietà del carcere per gli accusati di stupro di gruppo e un progetto di ampio respiro volto a sanare l'insostenibile sovraffollamento delle carceri italiane diventino l'occasione per scatenare l'ennesima ondata di indignazione a comando. Accade che l'inefficienza e la disonestà diventino le uniche chiavi di lettura dei cittadini nei confronti dell'intera sfera della politica. Accade che un coacervo di vecchi e nuovi fascisti, di vecchi e nuovi padroncini, di caporali e picchiatori dia vita ad un'ondata di proteste corporative e strumentali, tra l'entusiasmo e l'approvazione di gran parte dell'opinione pubblica (del resto, basta che si protesta…e poi le banche, la massoneria, la benzina). Accade che un senatore sottragga denaro alle casse del proprio partito e ad essere messa in discussione non è la trasparenza e la correttezza dell'operato degli stessi, ma il concetto stesso di sovvenzionamento ai partiti (e riferirsi al referendum del '93 "ora" non ha alcun senso). Accade che ad ogni notizia o dichiarazione si scateni la solita fumosa caccia alle streghe e che dall'enorme frullatore mediatico escano messaggi sempre più imprecisi, frammentari, parziali. Accade che le stagioni sono tutte uguali, gli uomini sono tutti ladri all'occorrenza e si stava meglio quando si stava peggio. Amen.
Eppure, al di là delle giustificazioni improbabili di comportamenti o scelte, dovrebbe essere abbastanza evidente che populismo e qualunquismo "sono strumenti della conservazione" e che non può esserci rivoluzione dove c'è demagogia e mediocrità. Il clima del '92, lungi dal riformare politica ed istituzioni nel segno della legalità e della trasparenza, ha spianato la strada ad uno dei ventenni più bui della nostra storia, la rabbia generalizzante è semplicemente un modo per "puntellare il fortino della reazione", per consolidare un sistema e per rafforzare gli stessi apparati che "dovremmo" combattere. Ed è proprio chi vuole cambiare radicalmente il nostro Paese che non può esimersi da uno sforzo ulteriore ed è chiamato a resistere. Resistere al qualunquismo dilagante, resistere alla "propaganda sistemica" e alle derive complottiste alla stesso tempo, resistere al "semplicismo delle analisi", perchè la realtà è complessa e le "mezze stagioni esistono ancora". Ne ha scritto con parole più efficaci, riferendosi al presunto inciucio sulla legge elettorale e alla confusione sul finanziamento pubblico ai partiti, anche Stefano Menichini :
A ciascuno il suo. Noi dobbiamo fare il nostro dovere, che consiste anche nello smontare luoghi comuni, leggende, operazioni di disinformazione sull’attività dei partiti, sulla loro politica, sulle loro strategie, sull’integrità dei loro leader. I partiti naturalmente facciano il loro, di dovere…