Ufficialmente è più determinato che mai e la sua comunicazione è tutta votata al "cambiamento", alla "discontinuità", all'azione e alla velocità del fare. Questa "è la volta buona" per "cambiare verso al Paese", ripete in varie salse da giorni. In privato probabilmente le cose andranno diversamente. Certo è che la lunga corsa di Matteo Renzi si è interrotta bruscamente dopo aver "espugnato" Palazzo Chigi e parallelamente si sono andati moltiplicando i dubbi sulla buona riuscita dell'operazione – staffetta. Un primo campanello di allarme era suonato alla composizione della squadra di Governo, solo il preludio del pastrocchio di sottosegretari e viceministri: una pletora di 44 membri, scelti col Cencelli, tra cui spiccavano "cambiali elettorali" e nomine molto discusse, da Gentile al poker democratico di indagati. Mine scansate tutt'altro che agilmente, con il segretario democratico che ha preferito defilarsi e lasciare i suoi uomini a gestire la questione (che non è nemmeno chiusa, probabilmente).
Poi lo sbarco in Parlamento, con la regia del ministro Boschi. Bufera sul Salva Roma, con tanto di botta e risposta col compagno di partito Marino, confusione all'ennesima potenza sulla legge elettorale. In questo caso più che di una serie di compromessi al ribasso (con l'eliminazione dell'articolo 2 e la conseguente teorica compresenza di due sistemi elettorali distinti per le due Camere, ma anche con l'accantonamento della questione parità di genere) si può parlare di una maggioranza inesistente, che sopravvive solo grazie ai voti nel merito di Forza Italia (dovendo, di conseguenza, accettarne le richieste). Tra l'ostruzionismo di parte della stessa maggioranza, la fronda interna al Pd, i controsensi logici, i tanti dubbi sulla costituzionalità della legge, i giudizi di merito sulla struttura dell'Italicum, l'opposizione dei 5 Stelle, davvero non si capisce come si possa sperare di superare indenni le forche caudine della discussione a Palazzo Madama. E senza nemmeno parlare della questione dell'abolizione / revisione del Senato…
Poi sono arrivati gli schiaffi della Commissione Europea, proprio alla vigilia dell'appuntamento di Renzi a Bruxelles: una retrocessione e tanti dubbi sulla possibilità che il Paese inverta il trend, ma soprattutto la velata minaccia di sanzioni nel caso in cui l'Italia deragliasse dai binari immaginati tra Bruxelles e Francoforte. Renzi ha abbozzato, parlando di "numeri molto duri" e ribadendo la necessità di "cambiare verso", ma l'effetto di contrasto fra i moniti della Commissione e la girandola di numeri fatta roteare dal Presidente del Consiglio, 10 miliardi per il cuneo fiscale, 2 miliardi per la scuola, via 10% Irap, è stato terribile, proprio perché ha amplificato l'eco della domanda ricorrente: "Ma dove li prendi i soldi?"
Nel mezzo, alcune scelte di comunicazione più o meno felici. La visita ai bambini di Siracusa, con le annesse polemiche sullo spettacolino orchestrato dalla preside (qui un'opinione in merito), è comunque la dimostrazione del tentativo di occupare gli spazi in modo "diverso", ma allo stesso tempo della resistenza in parte dell'opinione pubblica a "vivere" in una sorta di campagna elettorale continua. Poi dulcis in fundo la foto di rito con Mariano Ferro, leader dei Forconi, e Rosario Crocetta: una triste istantanea che Renzi avrebbe volentieri evitato. Proprio perché testimonia l'incapacità di staccarsi dalle vecchie liturgie della politica e perché lo lega (indirettamente, è chiaro) ad una figura emblematica della fase di transizione che sta ancora attraversando il Paese: quella in cui le istanze qualunquiste e populiste hanno raggiunto livelli di condivisione inimmaginabili, orientando persino la pratica politica. La politica del Gattopardo e della propaganda cui sacrificare ideali, istanze e grandi progetti di cambiamento. Quella incapace di "far sognare", ma dedita alla tutela dei piccoli interessi. Quella della mediazione al ribasso, della conservazione che si fa beffe della rottamazione e della palingenesi del sistema. Quella che in effetti con Renzi avrebbe poco a che spartire. Insomma, la sensazione è che se "il futuro è di Renzi", il presente è ancora quello del pantano, quello vero. E per ora non ci resta che autoconvincerci che sia solo questione di tempo.